venerdì 31 agosto 2018

Il castello di sabato 1 settembre




CASTELLABATE (SA) – Castello dell’Abate

Le prime notizie ufficiali sul territorio risalgono al 977, quando il vescovo di Paestum Pandone vendette alcuni possedimenti terrieri che facevano capo alle chiese di Santa Maria de Gulia, Santa Maria Litus Maris e San Giovanni di Tresino a marinai di Atrani. In queste terre ci fu anche la presenza dei monaci basiliani profughi dell'oriente, la cappella di Santa Sofia ne è una testimonianza. I Longobardi e i Normanni sono tra le popolazioni che hanno lasciato nella zona un forte segno tangibile della loro presenza. I Longobardi inizialmente depredarono queste terre, ma dopo la loro conversione al cristianesimo operata dai benedettini ne divennero i benefattori attraverso l'imposizione feudale. Essi, data la loro profonda devozione per san Michele Arcangelo, denominarono colle Sant'Angelo l'altura su cui sarebbe sorta Castellabate. Nel 1028 il principe Guaimario III di Salerno scacciò i Saraceni definitivamente. Nel 1072 fu il principe longobardo Gisulfo II di Salerno a donare le terre di Castellabate all'abate della badia di Cava Leone I. Il lavoro svolto dai benedettini fu talmente meritorio durante la dominazione normanna, soprattutto per le bonifiche operate, che Guglielmo II di Puglia nel settembre del 1123 gli concesse il privilegio di costruire una fortezza per difendere le popolazioni locali dagli attacchi dei pirati saraceni, i quali compivano frequenti scorrerie nella zona. La storia di questo territorio è legata indissolubilmente alla figura di san Costabile Gentilcore, quarto abate della Badia di Cava. Nel medesimo anno in cui fu elevato alla dignità di abate egli avviò i lavori di costruzione del castello di Sant'Angelo (10 ottobre 1123). L'abbaziato di Costabile fu breve: questi difatti si spense il 17 febbraio 1124. Il suo successore, l'abate Simeone, completò la costruzione del maniero e si prodigò in favore della popolazione locale. Nel 1124 egli comprò dal conte di Acerno il porto "Travierso" e lo fece ampliare, sviluppando così il commercio. Nel 1138 concesse ai sudditi del potere feudale dell'abbazia un diploma di diversi privilegi: ridusse a metà gli aggravi, donò ad essi le case che abitavano e le terre chiedendo in cambio la loro bonifica e coltivazione. Dal 1194 al 1266 il feudo fu sotto il dominio svevo, per passare poi sotto quello angioino. Il castello si rivelò un valido presidio e Castellabate, grazie anche ai benefici derivati dalla sua posizione naturale, divenne col tempo la più importante baronia del Cilento. Nel 1276 il feudo ecclesiastico comprendeva i casali di Perdifumo, San Mango, San Mauro, Acquavella, Casalicchio, Serramezzana, San Giorgio, Tresino, San Matteo ad duo fulmina, Torricelle, Ortodonico (oggi frazione di Montecorice), San Zaccaria e Santa Barbara di Ceraso, e i principali approdi cilentani: Stajno, Travierso, Santa Maria de Gulia, Pozzillo, Oliarola, San Primo di Cannicchio e San Matteo. Durante la guerra angioina-aragonese il castello subì gravi danni e venne conquistato nel 1286 dagli Almugaveri agli ordini di Giacomo I di Sicilia, che lo tennero fino al 1299 quando fu ripreso dagli Angioini di re Carlo II d'Angiò. Nel 1302 questi lo laicizzò, nominando Giacomo di Sant'Amando capitano del castello e concedendo agli abati cavensi, ritenuti responsabili di scarsa vigilanza, esclusivamente di dimorare. Castellabate quindi ospitò un presidio della corona, in cui si succedettero i capitani Riccardo di Eboli, Goffredo di Castro, Tommaso III Sanseverino e Ruggiero II Sanseverino, fino al 1349, quando fu restituito completamente alla Badia di Cava dalla regina Giovanna I di Napoli. Nel 1357 il castello fu conquistato con la violenza, sequestrando anche l'abate Maynerio, da Nicola Vulture di Rocca Cilento, ai cui discendenti venne poi sequestrato il feudo perché partigiani di Luigi I d'Angiò. Altre notizie sul feudo ecclesiastico si hanno nel 1412, anno in cui papa Gregorio XII per saldare alcuni debiti bellici lo vendette a re Ladislao I di Napoli. Sotto la regina Giovanna II di Napoli, il castello venne occupato dal conte di Campagna Francesco Mormile, che lo dovette cedere poi nel 1427 al principe di Salerno e barone del Cilento Antonio Colonna. Re Alfonso V d'Aragona nel 1436 lo concesse a Giovanni, conte di Marsico e barone del Cilento, appartenente alla famiglia dei Sanseverino che lo amministrarono fino alla ribellione di Ferrante Sanseverino (1552), ultimo principe di Salerno. Da allora alla guida di Castellabate si avvicendarono diversi feudatari: Marino Freccia (1553), acquistandolo all'asta dalla Regia Camera della Sommaria; Vincenzo Loffredo (1556); famiglia Filomarino, conti di Rocca d'Aspide (1557); famiglia Acquaviva, conti di Conversano (1622); famiglia Caracciolo di Torrecuso (1645), che dovette fronteggiare un evento catastrofico come la peste del 1656; consigliere regio Francesco Nicodemo (1704); reggente Giacinto Falletti (1713); marchese Paride Granito (1733). Il paese fu interessato dalla Repubblica Napoletana del 1799, in cui Luisa Granito ebbe un ruolo politico attivo. La famiglia Granito, dopo diverse successioni, possedette il feudo fino all'eversione della feudalità avvenuta nel 1806. L'abitato medievale sorge su colle Sant'Angelo e conta cinque accessi: porta "Cavalieri" e porta "di Mare", dal lato mare; porta "la Chiazza" e porta "Sant'Eustachio" dalle campagne; porta "de li Bovi" dal retroterra (Belvedere). L'accesso principale è dal "Belvedere di San Costabile" (chiamato anticamente "Vaglio"), una terrazza a picco sul mare con vista panoramica del golfo di Salerno, dell'isola di Capri e d'Ischia. Il paese si sviluppa intorno alle mura del "Castello dell'abate", che fu fondato nel 1123 dall'abate Costabile e completato dal suo successore Simeone, con lo scopo di proteggere la popolazione locale dedita a fiorenti traffici via mare da eventuali attacchi da parte dei Saraceni. La fortezza è dotata di mura perimetrali con quattro torri angolari in laterizio a pianta rotonda e cela all'interno abitazioni, forni, cisterne e magazzini per le provviste. Sono accessibili i sotterranei, che, secondo alcune leggende, raggiungono le frazioni marine per poter permettere la fuga in caso di invasione (ad esempio una strada sotterranea condurrebbe fino a Punta Licosa). La struttura, completamente restaurata, è diventata un punto di riferimento per manifestazioni artistiche, culturali e sociali. Il borgo è caratterizzato dall'intreccio di vicoletti in pietra viva e stretti passaggi al di sotto delle casette comunicanti. Ad oggi il castello è visitabile ed è mantenuto molto bene, con all’interno la possibilità di ammirare le miniature dei fabbricati del paese di Castellabate, e le opere pittoriche e di sculture di artisti del luogo. Presso la sala delle conferenze del Castello si tengono cerimonie. Il Castello dell’Abate è stato scelto tra le testimonianze più interessanti e significative della Regione Campania dall’Istituto Italiano dei Castelli e nel maggio di quest’anno è stato protagonista delle Giornate nazionali dei Castelli promosse dal MiBact, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Qui si può visitare virtualmente il monumento: http://www.italiavirtualtour.it/dettaglio.php?id=94633. Altri link suggeriti: https://www.youtube.com/watch?v=vJeEbY0KTQ4 (video di CilentoChannel Gianni Petrizzo), https://www.youtube.com/watch?v=v9xwmJ3xxes (video di Visit Italy), https://www.alamy.it/fotos-immagini/castellabate.html.

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Castellabate, http://www.italiavirtualtour.it/dettaglio.php?id=94633, https://www.paesionline.it/italia/monumenti-ed-edifici-storici-castellabate/castello-all-abate, http://www.cilentiamoci.it/castellabate-giornate-nazionali-dei-castelli-visite-gratuite-al-castello-dellabate/

Foto: la prima è una cartolina della mia collezione, la seconda è presa da http://www.cilentontheroad.it/public/it/borgo/66/castellabate, infine la terza è presa da https://www.agro24.it/2018/05/castello-dellabate-pronto-le-giornate-nazionali-dei-castelli/

Il castello di venerdì 31 agosto



MONTE SAN PIETRO (BO) – Castello di Mongiorgio

Lasciata la strada per Badia, deviando a destra per la strada che porta nella valle del Samoggia ecco apparire il piccolo borgo di Mongiorgio con il castello risalente al X/XI secolo, che è tra le costruzioni civili più interessanti della zona nonostante i danni provocati dal lungo abbandono, all'interno del quale si trova anche la seicentesca chiesa di S.Sigismondo e S.Pietro. Alcuni estimi del 1245 ricordano i castelli di Pizzano, Zappolino, Monte San Pietro e Mongiorgio. Non ci si deve far ingannare dalla visione in lontananza di alcune costruzioni merlate di stile neogotico: sono edifici successivi che non hanno nulla a che vedere con il castello, scrutando oltre una folta vegetazione, si scorge la porta d'ingresso del castello sovrastata dalle feritoie che consentivano il sollevamento del ponte levatoio. La torre quadrangolare fu ridotta in macerie dopo il crollo avvenuto nel 1976. Mongiorgio godette di particolare importanza tra il X e il XVI secolo e fu Comune nel XIII secolo. Quel che resta del castello, in posizione bellissima, è in totale abbandono al punto che non è più visibile pur essendo in prossimità di strada carrabile. Esistono ancora dei sotterranei con tanto di pozzo rasoio (cementato) e due accessi chiusi da pietre che, secondo le voci degli anziani del posto, celano gallerie che conducevano ad altri insediamenti medioevali. Nel 1784 il castello di Mongiorgio viene così descritto: "La sua rocca non gira più di circa ottanta pertiche bolognesi; ed altro ora non v'è rimasto, che poche e rovinate mura castellane, e la porta d'ingresso, con qualche mezzo sdruscita casa, la canonica, la presente chiesa parrocchiale". (Notizia tratta da Calindri, vol.III, pagg. 264-271. NOTIZIA DA VERIFICARE)

Fonti: https://www.comune.montesanpietro.bo.it/index.php/69-temi-principali/cultura-e-turismo/cenni-storici-e-cosa-vedere/360-cosa-vedere, https://www.fondoambiente.it/luoghi/castello-mongiorgio, http://geo.regione.emilia-romagna.it/schede/castelli/index.jsp?id=5805

Foto: entrambe di Luigi Fantini, scattate nel 1940, su https://collezioni.genusbononiae.it/products/dettaglio/16177 e https://collezioni.genusbononiae.it/products/dettaglio/16176

giovedì 30 agosto 2018

Il castello di giovedì 30 agosto



CASTRIGNANO DEL CAPO (LE) - Castello di Giuliano

Giuliano di Lecce è una frazione del comune di Castrignano del Capo. Ha storicamente nobili e affascinanti origini che legano la sua vita a quella della dinastia nobile che l'ha posseduta. Con i Normanni, il paese fu dotato di un reggimento comunale; nacque l'Universitas di Giuliano che, nell'ambito della Diocesi di Alessano, era una delle più importanti per popolazione (682 abitanti nel 1590) e cultura (notai, medici ed avvocati). A testimonianza dello stato sociale del paese, rimangono sui muri del centro storico iscrizioni ed epigrafi latine che riportano brani biblici o motti di buon auspicio, alcuni riferiti agli amati sovrani del luogo. Una delle più interessanti si trova sulla porta d'ingresso di un frantoio Ipogeo: "impiantato non con speranze di guadagno, ma di libertà, nell'anno del Signore 1789". Nel XVII secolo, durante il dominio della famiglia feudataria dei Cicinelli, il centro fu dotato di ulteriori mura difensive sulle quali si apriva la porta di San Giuliano, tuttora esistente. Nel corso dei secoli, l'importanza dell'Universitas di Giuliano andò via via affievolendosi. Con l'abolizione del feudalesimo, avvenuta nel 1806, e l'affermarsi della politica napoleonica, i territori e la cultura subirono un forte decadimento, l'Universitas giulianese venne chiusa e il 25 novembre 1808 il paese fu aggregato al comune di Castrignano del Capo, perse la grande importanza di un tempo, divenendone una frazione insieme a Salignano e alla marina di Leuca. Il castello feudale di Giuliano, sito in Piazza Castello, fu edificato nei primi anni del XVI secolo nel cuore antico del paese. La fortezza è una delle poche nel Salento ad avere mantenuto l'originaria fisionomia intatta. Il fossato, ancora visibile, ospita un agrumeto. L'edificio presenta i caratteri propri dell'architettura militare del Cinquecento. Il prospetto principale, ai cui lati si elevano due torrioni di forma quadrata, è caratterizzato da cortine e da quattro alti bastioni verticali. Un ampio ponte ad archi, che supera il fossato, permette l'accesso all'interno del castello. La struttura è distribuita intorno a un ampio cortile centrale sul quale si affacciano tutti gli ambienti del piano terra e del primo piano. Il piano terra, destinato alle attività produttive, ospita le scuderie, le stalle, i depositi e i locali per la servitù; il piano superiore, destinato invece alla residenza del feudatario, ospita le stanze nobiliari. Il castello è tuttora di proprietà privata. Altri link suggeriti: http://www.torrevado.info/salento/castello-giuliano.asp,

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_di_Lecce, https://it.wikipedia.org/wiki/Castello_di_Giuliano

Foto: la prima è di peiro su http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/330200, la seconda è di Psymark su https://it.wikipedia.org/wiki/Castello_di_Giuliano#/media/File:Giuliano-castello3.JPG

mercoledì 29 agosto 2018

Il castello di mercoledì 29 agosto




ENVIE (CN) - Castello

Sotto gli imperatori franchi il feudo di Envie passò ai marchesi di Susa e successivamente a quelli di Saluzzo. Dal 1363 divenne possedimento dei Savoia. Questi ultimi, che a quei tempi stavano ancora a Chambéry, esercitavano il potere tramite accordi di vassallaggio con signorotti locali. Dapprima furono gli Acaja, poi nel 1412 si insediò la dinastia dei Cacherano conti di Bricherasio che per alcuni secoli dominò su Envie. Il castello fu costruito dal marchese di Saluzzo nel 1260, in forma di ricetto difensivo. Fu distrutto dagli Acaja nel 1336 e ricostruito dai conti di Bricherasio nel secolo XV. Fu danneggiato durante le guerre di religione del Cinquecento e completamente abbattuto dai Savoia. Dopo alcuni secoli di oblio lo acquistò il conte Guasco di Castelletto che lo riedificò, in stile neogotico, a metà dell'Ottocento. Furono ospiti del conte, nel castello enviese, Cavour, Pellico, e D'Azeglio. Quest'ultimo scriveva alla moglie:«Questo è veramente un luogo adatto per scrivere un romanzo». Silvio Pellico dedicò una poesia alla nobile Clementina che era morta giovanissima. "Ella s'inchina a protegger d'Envie l'antica villa e il castello in cui visse te vicina". Il castello è composto da sette torri in una delle quali è collocato l’appartamento del principe che deve questo nome al Principe di Lucca che vi soggiornò nel 1844. Il conte Guasco dotò la sua dimora di una fornita biblioteca e di lussuosi arredi. Il maniero venne circondato da un elegante giardino all'inglese, in cui erano presenti alberi ad alto fusto e piante esotiche (tra cui begonie, pini secolari, lauro giapponese), accompagnato da una monumentale serra. Gli arredi e i testi della biblioteca sono stati venduti all'asta nel 1980. Il giardino è stato danneggiato dalla tromba d'aria dell'agosto 2003; alcuni alberi sono stati abbattuti. Oggi, di proprietà privata, è sede di un ristorante. E’ stata oggetto di recente restauro la torre che si affaccia su Piazzetta S. Giovanni con l’adiacente parco che include tavoli e panche ed una fontana.

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Envie, http://www.vallidelmonviso.it/valle-po/envie/, http://www.campeggiovallepo.it/public/castelloenvie.asp

Foto: la prima è di PiGi'Franco su https://mapio.net/a/63302660/?lang=en, la seconda è di alessandro1953 su http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/205406/view

martedì 28 agosto 2018

Il castello di martedì 28 agosto





SENIGALLIA (AN) - Rocca Della Rovere

Importante testimonianza di architettura militare, la Rocca venne realizzata nel suo assetto attuale, inglobando preesistenti strutture difensive, tra il 1476 e il 1482 per volere di Giovanni della Rovere, Signore di Senigallia e Mondavio dal 1474 al 1501 (nonché genero di Federico III da Montefeltro, duca di Urbino). L’opera di costruzione della fortificazione cittadina fu affidata dapprima a Luciano Laurana, progettista del Palazzo ducale di Urbino, e a partire dal 1480, all’architetto militare Baccio Pontelli. Al primo si deve la realizzazione della parte residenziale e del ponte levatoio di accesso; al secondo, le opere strettamente connesse alla difesa, costituite dalla struttura d’impianto quadrangolare con massicci torrioni angolari, oltre ai lavori di completamento della residenza ducale: gli elementi decorativi delle finestre, i fregi presenti nel cortile e negli ambienti interni; la scala a chiocciola del torrione nord. Il complesso architettonico attuale è il risultato di interventi di riforma e ampliamento succedutisi nel corso dei secoli a partire dalla prima torre difensiva risalente all’epoca romana, sulla quale furono costruite la torre costiera medievale dei secoli XII-XIII, la prima rocca voluta dal cardinale Egidio Albornoz intorno alla metà del sec. XIV, fino alla realizzazione della rocca malatestiana della metà del sec. XV e della rocca roveresca della fine dello stesso secolo. La Rocca può essere definita, dunque, uno straordinario libro di storia: infatti è il risultato della sovrapposizione di strutture difensive succedutesi nei secoli, fin dalle origini della città, in un sito di determinante importanza strategica. All'interno si individuano i resti dei massicci blocchi tufacei della fondazione romana, in grande evidenza nella parete del cortile a sinistra di chi entra; di fronte all'ingresso si notano invece i resti di una millenaria torre quadrangolare in blocchi calcarei poi inglobata (seconda metà XIV secolo) nella Rocchetta voluta dal cardinale Egidio Albornoz, a ridosso della quale verso la metà del secolo successivo (XV) sorse la Rocca di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Nella sua storia millenaria la Rocca, arresasi nel 1503 a Cesare Borgia che a Senigallia compì la celebre strage descritta da Nicolò Machiavelli, non fu solo una fortezza, ma anche una dimora signorile, nonchè sede di una scuola di artiglieria fondata da Guidubaldo II della Rovere nel 1533. Estintasi la dinastia ducale, dopo il ritorno nel 1631 della città sotto il dominio della Chiesa, la Rocca fu dapprima utilizzata come carcere pontificio, successivamente come orfanotrofio. Oggi ospita mostre d'arte e prestigiose manifestazioni culturali. All'interno, un sistema didattico multimediale con apparati esplicativi del percorso di visita e una videoteca, illustra la storia dell'edificio e la destinazione dei vari ambienti. Ristrutturato in età roveresca per adempiere alla doppia funzione di difensiva e residenziale, il cortile appare oggi tipicamente quattrocentesco, pur conservando cospicui resti delle precedenti costruzioni. In posizione decentrata si trova un elegante pozzetto con vera in pietra scolpita con le insegne della famiglia ducale e, accanto ad esso, la cisterna di raccolta delle acque di forma circolare. A destra dell’ingresso principale, al piano interrato della zona fortificata, alcuni ambienti in origine adibiti a cannoniere, furono utilizzati dal governo pontificio nei secoli XVII-XIX come prigioni per detenuti; al piano superiore è visitabile il forno cinquecentesco. Il piano terra della residenza ufficiale era destinata ad alloggi del castellano e degli ufficiali delle milizie roveresche. Gli ambienti di servizio erano adibiti a depositi di derrate alimentari. Al primo piano si sviluppava l’appartamento ducale, con soffitti e peducci delle volte decorati da pregevoli bassorilievi raffiguranti insegne araldiche della casata roveresca. Cornici di porte e finestre sono ornati da fregi a grottesche. Uno degli ambienti, adibito a cappella, è coperto da volta a vela con la cosiddetta Ostia di San Bernardino posta al centro e agli angoli stucchi raffiguranti putti e conchiglie. Il secondo piano ospitava la sala di rappresentanza, destinata alle cerimonie e alle udienze del duca. Allorché la Rocca nel 1631 venne adibita a carcere dal governo pontificio, l’ambiente acquisì la funzione di cappella per i detenuti e venne dotata di un piccolo altare tuttora visibile. Per maggiori informazioni sul monumento, consiglio i seguenti link: https://it.wikipedia.org/wiki/Rocca_Roveresca_(Senigallia), http://www.mondimedievali.net/castelli/marche/ancona/senigallia.htm, https://www.youtube.com/watch?v=hPDipd5J9Zc (video di White Primrose Music), https://www.youtube.com/watch?v=I7lP6J5TkX8 (video di 00allover00), https://www.youtube.com/watch?v=dN8tl3LsXsY (video con drone di MrCobol71)

Fonti: https://www.regione.marche.it/Regione-Utile/Cultura/Ricerca-Musei/Id/388/SENIGALLIA-Rocca-Roveresca, https://www.feelsenigallia.it/da-vedere/monumenti/rocca-roveresca.html, http://www.marche.beniculturali.it/index.php?it/111/rocca-roveresca-di-senigallia.

Foto: la prima è una cartolina della mia collezione, la seconda è presa da http://footage.framepool.com/it/shot/936211710-rocca-roveresca-senigallia-renaissance-citta, infine la terza è del mio amico e “inviato speciale” Claudio Vagaggini, scattata ad agosto 2018.

domenica 26 agosto 2018

Il castello di lunedì 27 agosto



SENIGALLIA (AN) – Torre Albani in frazione Montignano

Secondo un'ipotesi non unanimemente accettata, il toponimo deriverebbe da un antroponimo latino, e starebbe a significare “podere di proprietà di personaggio o famiglia di nome Tinia, Ignius, Montennius o Montinius”. In due manoscritti del 1489 e del 1596 è attestato il toponimo “villa, fosso de Montignani/Mantegnano”. Un'altra ipotesi riconnette il toponimo al sostantivo latino ignis, in riferimento ai fuochi di segnalazione che venivano accesi sulle colline per agevolare la navigazione di cabotaggio tra Ravenna e Ancona. Una terza ipotesi legge nel nome Montignano il ricordo della città di Martiana, la cui memoria - assente nei documenti antichi - ricorre in un'opera agiografica, gli Atti di san Gaudenzio, quale luogo della miracolosa guarigione di un cavaliere pagano, poi convertitosi al cristianesimo. Montignano apparteneva al contado di Senigallia, ma ciò non risulta dagli antichi documenti probabilmente perché, essendo terra di confine, i suoi campi non furono oggetto di donazioni, oppure perché era conosciuto sotto altri nomi che oggi non siamo in grado di identificare. “Tor Feltresca”, questo è l’appellativo dato dai cartografi del Cinquecento a questa rara torre antisbarco, chiamata oggi Torre Albani. Occhio vigile verso la nemica Ancona, doveva servire a Feltreschi (cioè ai Della Rovere che signoreggiavano Senigallia) per guatare le mosse della Dorica, cioè Ancona”. Torre Feltresca fu costruita sotto il governo senigalliese dei Montefeltro dai Della Rovere, verso la fine del Quattrocento, con la funzione di punto di avvistamento e comunicazione in caso di attacco e di pericoli provenienti dal mare. Le comunicazioni avvenivano tempestivamente con segnali visivi e luminosi, con torce e fuochi, al fine di segnalare e ostacolare le incursioni dei corsari turchi che invadevano spesso l’Alto Adriatico, avvertendo il presidio armato della Rocca di Senigallia a nord e di Montemarciano a sud e fin giù ad Ancona, oltre che le torri nei territori più interni. Verso la fine del’700, quando il Cardinale Gianfrancesco Albani divenne Abate Commendatario di Sitria, alcuni suoi parenti si trasferirono nella regione di Montignano e acquistarono la torre che, da allora prese il nome di Torre Albani. Con i nuovi proprietari la torre fu nuovamente restaurata e nel 1830 l’ingegnere Antonietti, amministratore della casata degli Albani, sopraelevò l’edificio di un piano, più ristretto rispetto al corpo della torre, e modificò la scala centrale. Nel 1886 la torre venne acquistata dal principe Emanuele Ruspoli, lo stemma della famiglia Ruspoli, in ceramica policroma, è attualmente ancora presente sul portone d’ingresso della torre, ed anche all’ingresso della chiesetta del “Crocifisso della Torre”, lì vicino. Successivamente, nel 1973 la proprietà della torre è passata alla famiglia Manzoni, unitamente alla sig.ra Toschi in Perosa. Attualmente la torre appartiene ancora alla famiglia Manzoni. Altro link suggerito: http://www.iluoghidelsilenzio.it/torre-albani-di-montignano-senigallia-an/

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Montignano_(Senigallia), https://visitmarzocca.it/cosa-vedere-marzocca-di-senigallia/torre-di-montignano-torre-albani/

Foto: entrambe prese da http://www.iluoghidelsilenzio.it/torre-albani-di-montignano-senigallia-an/

sabato 25 agosto 2018

Il castello di domenica 26 agosto




CERVARO (FR) – Castello

Cervaro porta questo nome perché sul Pesculum, dove venne fondato il castello, un branco di cervi usava pascolarci. Nel 757 vi si ritirò come monaco benedettino il re longobardo Rachis, che vi fondò una piccola comunità monastica ispirata al culto mariano e alla coltivazione dell'ulivo. Nell'alto medioevo, l'abate di Montecassino Petronace fece erigere un castello detto Castrum Cerbari. Entrato a far parte in epoca remota dei possedimenti di Montecassino, la cosiddetta "Terra Sancti Benedicti", Cervaro è citato per la prima volta nel 1038 anno in cui, secondo quanto riportato nel Chronicon Casinense, la popolazione del "Castrum Cerbari" si ribellò al dominio dei Benedettini durante un conflitto tra l'abate di Montecassino, Richerio, ed i Conti di Aquino. Di qualche anno più tarda (1057) è la menzione del castello di "Turriculum" (l’attuale Trocchio), attualmente in territorio cervarese, ricordato, assieme al castello di "Cervaro", in una bolla di papa Vittore II di conferma dei beni di Montecassino. Tra il X e l' XI secolo, si costituì anche il primo nucleo della popolazione locale, derivata da immigrazioni di agricoltori abruzzesi-molisani, chiamati dall'abate Aligerno per ripopolare le terre di Montecassino dopo le devastazioni saracene della seconda metà del Nono Secolo, e dalla presenza sul territorio di Normanni e Baresi, seguaci di Melo da Bari e di suo cognato Datto, rifugiatisi nel Lazio Meridionale e nella Campania settentrionale dopo le sconfitte subite ad opera dei Bizantini. Testimonianza di tale fusione è il dialetto locale, con caratteristiche del tutto particolari rispetto ai vernacoli delle zone limitrofe. La popolazione di Cervaro, assieme a quella della vicina Sant'Angelo in Theodice, fu tra le più insofferenti all'autorità cassinese e dopo la ribellione del 1038, più volte, nel corso dei secoli tentò di affermare la propria indipendenza con esiti alterni. Nel 1142 fu la prima tra le comunità della Terra di San Benedetto ad avere in concessione dai Cassinesi una Charta Libertatis, ma nel 1423, con l'impiccagione e la confisca dei beni dei quattro cervaresi promotori dell'insurrezione, subì la repressione dei Benedettini, essendosi schierata contro l'abate durante la lotta tra i Durazzo ed i D'Angiò per la successione del Regno di Napoli. L'esemplarità della pena inflitta ai ribelli testimonia la pericolosità dei Cervaresi per il governo cassinese che in casi analoghi, come la rivolta degli abitanti di Sant'Elia del 1273, aveva commutato in sanzioni più lievi l'iniziale condanna alla pena capitale dei capi dei ribelli. Tra i secoli XVII e XVIII, l'aumento della popolazione del Castello di Cervaro comportò anche un'espansione dell'abitato al di fuori delle mura cittadine, riproducente nell'impianto urbanistico la struttura originaria del centro storico, come testimoniano numerosi resti di abitazioni civili. Nel 1794, con la progettazione e successiva inaugurazione due anni dopo, della strada rotabile fra Sora e Napoli, Cervaro incrementò notevolmente i traffici commerciali esportando più agevolmente verso l'Abruzzo e la Campania i propri prodotti, primo tra tutti l'artigianato orafo, di antica tradizione. In seguito alle riforme amministrative introdotte durante la dominazione francese Cervaro fu annesso al Circondario di Sora, nel distretto omonimo, in Terra di Lavoro. L'amministrazione comunale, dopo l'eversione dei beni feudali, fu affidata ad un Decurionato mentre le funzioni giurisdizioni furono assegnate ad un giudice di pace, secondo quanto stabilito dai governanti francesi per il riassetto delle amministrazioni locali. I beni della Rettoria Cassinese di Cervaro, incamerati dall'Amministrazione dei Reali Demani, furono in parte acquistati da un cervarese, Diego Elia, in parte dal barone di Celenza, Orazio Giliberti, mentre all'Università con ordinanza del 07.11.1811 veniva assegnata in compenso degli usi civici una porzione di terreno equivalente ad un terzo del fondo "Colli" (60 tomoli), successivamente ceduto in efiteusi a trenta famiglie tra le più bisognose*. Nel 1927, nell'ambito del riassetto amministrativo voluto dal regime fascista, Cervaro entrò a far parte della neonata Provincia di Frosinone. Durante la seconda guerra mondiale il paese subì perdite umane e materiali, che condizionarono pesantemente la ripresa economica del dopoguerra. L’antico castello è situato nel centro storico, e precisamente sopra un colle (Pesculum) del monte Aquilone, circondato da via Municipio Vecchio e via Sobborgo, vicino alla Chiesa Santa Maria Maggiore. Rispetto alla casa comunale (250 metri s.l.m.) il colle è alto 10/15 metri in più, e lo si raggiunge da via Municipio Vecchio, prima denominata via Castello, come testimonia una targa. Si tratta dell'unica strada che consentiva l'accesso al castello. Da lì si può ammirare (e un tempo controllare) un ampio e magnifico panorama. Il castello è facilmente raggiungibile da piazza Casaburi, il centro nevralgico del paese, là dove sono situati o vicini la posta, le banche, il municipio, i bar e i pub più frequentati del paese). Occorre imboccare via Cervo e poi, a sinistra, via Municipio Vecchio. La distanza è di appena centocinquanta, ma sembrano portarti in un'altra dimensione, indietro nel tempo. Adesso il castello si offre piuttosto malmesso e diruto, ma è ancora visibile, presentandosi come un parco con molti alberi, dal quale si ammira uno stupendo e ampio panorama che comprende il Monte Trocchio e Cassino. Tuttavia è riduttivo pensare il castello solo come l’edificio costruito sul colle, che comunque ospitava già il capitano e la guarnigione di soldati. Per avere una ricostruzione immaginaria del complesso, è necessario tener conto delle mura che circondano il centro storico e degli archi, con i loro robusti portoni che si chiudevano durante la notte o in caso di pericolo. La stessa condizione urbana si ripete ad esempio nel vicino paese di San Vittore, dove le torri in pratica sono situate fra le abitazioni. Quelle mura adesso sono incorporate nelle abitazioni civili ed è chiaro che costituiscono adesso certi lati degli edifici. Più che una dimora gentilizia il castello infatti era un centro fortificato (appunto castrum) che serviva a riparare la popolazione dalle incursioni barbariche. Da questo arroccamento si poteva tenere sotto controllo facilmente la pianura circostante. Lungo la “via castello”, ora denominata Via Municipio Vecchio, si svolge ancor oggi il percorso della via crucis vivente. Urbanisticamente parlando, qui avviene un singolare raffronto fra i due castelli siti nello stesso comune di Cervaro, che è conosciuto anche come il “paese dei due castelli”: quello del centro storico e quello di Trocchio. E difatti gli stessi abitanti del centro storico e della periferia tendono a far confusione fra un castello e l’altro. Nel secolo XVI Cervaro ebbe una notevole espansione al di fuori della mura castrali, fenomeno dovuto soprattutto allo spopolamento del borgo-castello di Trocchio e al suo successivo inglobamento in un unico complesso. Di fatti una delle versioni dello stemma araldico di Cervaro recava, oltre al cervo, anche una C e una T, per indicare appunto Cervaro e Trocchio. Purtroppo le condizioni del castello sono peggiorate rispetto alle prime due foto che accompagnano questo articolo. Sono stato in visita a Cervaro nel luglio di quest’anno e tutte le rovine rimaste sono ora circondate (se non ricoperte in alcuni casi) da vegetazione e sterpaglie che ne impediscono una visuale chiara. Non sapevo cosa fotografare esattamente…..

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervaro, http://archivicomunali.lazio.beniculturali.it/ProgettoRinasco/inventarionline/html/frosinone/Cervaro.html, scheda di Livio Muzzone su https://www.mondimedievali.net/Castelli/Lazio/frosinone/cervaro.htm

Foto: la prima è di augusto giammatteo su http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/174379/view, la seconda è presa da https://www.mondimedievali.net/Castelli/Lazio/frosinone/cervaro.htm. Infine la terza è stata scattata da me durante la mia visita dello scorso luglio.

venerdì 24 agosto 2018

Il castello di sabato 25 agosto




SCALDASOLE (PV) – Castello

Il toponimo Scaldasole, che si trova anche in altri luoghi in Lombardia, deriva probabilmente dalla voce longobarda sculdascio indicante un giudice locale: se è corretta questa ipotesi, Scaldasole doveva essere già un centro di qualche importanza in epoca longobarda (secoli VI - VIII). La prima citazione risale al X secolo; appartenne alla Contea di Lomello, dipendente dai conti palatini. Nel 1250 è incluso nell'elenco delle terre del dominio pavese, nell'ambito della Lomellina. Nel XIV secolo il paese era sotto la signoria dei Campeggi di Pavia, che nel 1334 lo subinfeudarono ai Folperti, anch'essi di Pavia. Il feudo rimase in seguito ai Folperti, salvo alcuni anni (1436-1451) in cui ne furono investiti gli Avalos. Nel 1456 però Stefano Folperti lo vendette a Francesco III Pico della Mirandola, che risiedette nel castello e vi morì nel 1461. Gli sopravvisse la figlia Taddea, Signora di Scaldasole, sposa di Giacomo I Malaspina di Fosdinovo, marchese sovrano di Fosdinovo e Signore di Massa. Ciò diede l'occasione per il potente Malaspina di acquistare anche il vicino vasto feudo di Sannazzaro de' Burgondi, di cui ebbe in seguito la signoria una linea dei Malaspina che ne prese il nome. Invece Scaldasole, primo feudo malaspiniano in Lomellina, venne ceduto nel 1577 da Giulio Cesare Malaspina, discendente di Giacomo I, al conte Rinaldo Tettoni, che lo rivendette nel 1582 al cardinal Tolomeo Gallio, nella cui famiglia (Gallio duchi di Alvito, con titolo di Marchesi dal 1613) rimase fino all'abolizione dei feudi (1797). Scaldasole, con tutta la Lomellina, nel 1713 fu incluso nei domini di casa Savoia, e nel 1859 entrò a far parte della provincia di Pavia. Il nucleo originale del castello fu costruito tra il X ed il XII secolo e fu feudo della famiglia dei Campeggi. Tra il 1334 e il 1404 passò alla famiglia Folperti che fece intraprendere dagli architetti Milanino de Saltariis, Bernardo e Martino de Soncino, la costruzione sul lato sud del castello originale, del ricetto, vasto cortile rettangolare fortificato in grado di raccogliere in caso di necessità l'intera popolazione del paese. Successivamente, i marchesi Malaspina, nuovi feudatari di Scaldasole, abbellirono il castello con un portico ed una loggia e fecero affrescare alcune sale. Fu questo complesso edilizio, con le sue sette torri medioevali, le volte e i camini rinascimentali, ad ospitare nel tempo alcuni illustri personaggi tra cui nel 1491 Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso duca di Calabria e promessa sposa di Gian Galeazzo Sforza duca di Milano, nel 1497 l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e nel 1533 Carlo V d'Asburgo. Tra il secolo XV e il XVII secolo il castello fu oggetto di innumerevoli passaggi di proprietà: Filippo Maria Visconti, toltolo alla famiglia Folperti, nel 1436 lo diede al camerario ducale messer Jñigo d'Avalos conte di Ribaldeo e nel 1444 a Giovanni Pietro da Sesto, che lo restituì ai Folperti nel 1451. Cinque anni dopo pervenne a Francesco Pico della Mirandola conte di Concordia e nel 1461, per atto di successione, a suo genero Giacomo Malaspina, marchese di Fosdinovo. Nel 1577 fu ceduto al conte Rinaldo Tettoni, il quale lo vendette al cardinale Tolomeo Gallio di Como nel 1582 i cui eredi, i Gallio Trivulzio duchi d'Alvito, alienarono le proprietà locali al loro livellario Carlo Brielli nel 1799 che, tre anni dopo, le diede in investitura perpetua al nobile Giovanni Antonio Strada di Garlasco, ai cui discendenti appartiene tuttora. Il cardinale Tolomeo Gallio, segretario alle lettere ed ai brevi di papa Pio IV e, successivamente, segretario di Stato di Gregorio XIII, sistemò il giardino fastosamente, ma purtroppo dell'opera tardorinascimentale non rimangono che due enormi magnolie sul lato settentrionale del fossato, colmato per l'occasione, nonché una scalinata in sasso, adornata da due statue di Vicenza, che scende ad occidente. A poca distanza dall'ingresso settentrionale il prelato fece costruire delle bellissime scuderie, ancor oggi ben conservate. Il castello si presenta con l'impianto tipico delle fortificazioni viscontee di pianura, con gli edifici che formano un cortile centrale rettangolare - con al centro un pozzo in laterizio - delimitato da torri angolari munite di merlatura esterna, di fossato e barbacane con un ponte levatoio all'ingresso. La sua tipologia edilizia tuttavia si caratterizza nel panorama lombardo dalla presenza, a sud, del ricetto che risulta costituito da tre corpi di fabbrica uniti al castello con due torri gemelle ed una centrale in corrispondenza dell'ingresso orientale. L'ingresso alla fortificazione avviene principalmente attraverso la torre del ricetto, che era munita di ponte levatoio e di ponticella pedonale (di cui sono rimaste le tracce nella muratura). Il castello tuttavia aveva anche un suo proprio ingresso, separato. Tutto il complesso è stato ottimamente restaurato qualche decennio addietro dagli attuali proprietari, e si trova in ottimo stato di conservazione e manutenzione, comprendendo anche alcune sale che hanno conservato l'impronta originaria e un piccolo museo archeologico locale. Serve da abitazione estiva e saltuaria dei proprietari e da centro dell'azienda agricola ubicata nel ricetto. Di particolare interesse sono: il portico (dalle linee bramantesche, inserito in epoca rinascimentale sul lato settentrionale ) e la loggia del castello; i lunghi spalti merlati alla ghibellina del ricetto; la cappella oratorio del cardinale Tolomeo Gallio; la sala da ballo in stile Luigi Filippo affrescata nel 1846 dal Maggi, allievo dell'Appiani. All'interno del ricetto si possono inoltre ammirare delle carrozze del XIX secolo, splendidamente conservate, un'armatura medievale ed una raccolta di armi d'epoca. All'interno sono visibili stupendi camini d'epoca rinascimentale che abbelliscono le stanze del castello, tra le quali si possono ammirare la cucina, il salotto, la sala da pranzo, la "Sala maiore", la quattrocentesca "Camera longa", dedicata alle riunioni di consiglio del feudatario-podestà (dove il Consiglio della Comunità locale si riunì fino all'inizio del XIX secolo) nella quale si legge il motto di casa Malaspina "Mala spina bonis, bona spina malis", la biblioteca con volumi di storia pavese e lombarda, la Camera degli orologi e la Camera Turchina, un tempo riservata alle udienze private del signore, che oggi ospita il Museo archeologico, in cui si possono ammirare importanti pezzi di varia tipologia ed epoca, dall'età neolitica al periodo longobardo. I materiali, riferibili per lo più a contesti funerari, vennero rinvenuti in Lomellina tra la fine del XIX secolo e l'inizio del successivo. La collezione è stata recentemente vincolata alla pubblica tutela dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in forza del suo notevole interesse scientifico. Il castello di Scaldasole ha un suo sito web: http://www.castellodiscaldasole.it. Altri link suggeriti: https://www.comune.scaldasole.pv.it/it-it/vivere-il-comune/storia, https://www.youtube.com/watch?v=PCjPvC4vSSE (video di LW Castelli di Lomellina), https://www.youtube.com/watch?v=TXZMlkSOf1Y (video di Learningweek Castelli), http://www.preboggion.it/CastelloIT_di_Scaldasole.htm (con belle foto).

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Scaldasole, https://it.wikipedia.org/wiki/Castello_di_Scaldasole,
http://www.castellodiscaldasole.it/ita/storia_home.htm, https://www.comune.scaldasole.pv.it/it-it/vivere-il-comune/cosa-vedere/castello-di-scaldasole-26850-1-a5deec88b9542d8a90216fb9404d45cf, http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1A050-00227/

Foto: la prima è di Paola S su http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/385129/view, la seconda è di Solaxart 2013 su http://www.preboggion.it/CastelloIT_di_Scaldasole.htm. Infine la terza è del mio amico e “inviato speciale” Claudio Vagaggini, scattata nel luglio scorso.

giovedì 23 agosto 2018

Il castello di venerdì 24 agosto




FOLIGNO (PG) – Castello in località Verchiano

Verchiano è una frazione montana del comune di Foligno, si sviluppa lungo un pendio tra circa 750 e circa 850 m s.l.m., fa parte della Circoscrizione 8 "Valle del Menotre". Etimologicamente "Verchiano" significa "acquitrinio dei maiali", ciò oltre che dall'etimo è confermato dallo stemma di Verchiano (presente sul fontanile monumentale nel centro del paese, detto "dei Trinci" e nella "sala delle Armi" del Palazzo Comunale di Foligno) dove compare un verro sovrastato da una lama stretta in un pugno). Le sue origini risalgono al periodo umbro (circa III secolo a.C.) e il suo sviluppo fu dovuto alla posizione lungo una via di grande comunicazione del tempo, che collegava la Valle Umbra all'Alto Piceno: si tratta della via della Spina (così chiamata dal nome del paese di Spina nel comune di Campello sul Clitunno e dall'omonimo torrente, da non confondere con la città etrusca di Spina), che restò fino alla fine del XIX secolo la via più diretta per il collegamento di Roma con Ancona e la Marca anconitana. Questa via si ricongiungeva, a Colfiorito, alla via Lauretana e alla via Plestina che da Foligno portava a Camerino attraverso Colfiorito e Plestia. La storia di Verchiano seguì, nell'alto medioevo, quella del ducato longobardo di Spoleto. In epoca medievale il centro si spostò a monte creando l'agglomerato urbano del "Castello di Verchiano". Nel 1263 il Castello di Verchiano e quello di Roccafranca (e le loro pertinenze), appartenenti al comune di Spoleto, furono acquistati dal comune di Foligno (al tempo retto dalla signoria degli Anastasi): da quel momento le sorti di Verchiano furono legate a quelle di Foligno, pur mantenendo legami con Spoleto, specialmente in materia ecclesiastica; pur appartenendo al comune di Foligno, Verchiano fa tutt'oggi parte (con Roccafranca) dell'arcidiocesi di Spoleto-Norcia e non della diocesi di Foligno. Dal 1305 al 1439 fu dei Trinci, succeduti agli Anastasi come signori di Foligno. Nel 1305 con l’avvento della Signoria Trinciana, il castello e le zone di pertinenza passarono di mano, ed è in questo periodo che lo stesso incominciò ad assumere un ruolo rilevante nel territorio, fino ad arrivare al suo massimo splendore sotto Corrado III. A dimostrazione dell’importanza che aveva assunto la fortezza in funzione dei traffici e della strategia difensiva dell’epoca, si può citare la notizia che già nel 1384 Corrado II Trinci, concesse a certo Matteuccio Branchi da Spoleto non senza onere, un salvacondotto per il trasporto di 20 salme di grano dalle Marche a Spoleto passando per Verchiano, percorrendo cioè la via della Spina (o delle Pecore). Nel 1408, Braccio Fortebracci da Montone famosissimo capitano di ventura messosi al servizio del re di Napoli, provenendo da Todi avrebbe preteso di passare con le sue truppe (1200 cavalli e 1000 fanti ), attraverso il territorio folignate. Poiché la richiesta non venne accolta, il Fortebracci mise a ferro e fuoco la zona spingendosi si dice, fino al castello di Verchiano. Dopo la fine della Signoria dei Trinci, le beghe confinarie con gli spoletini che non si erano mai sopite, ripresero con maggior vigore anche per il fatto che nel frattempo (1461), gli stessi si erano impadroniti di nuovo del castello di Roccafranca. Il 21 ottobre 1482, gli spoletini assaltarono anche Verchiano e Rasiglia. Così il Mugnonio cronista dell’epoca descrive l’avvenimento. “1482 et addì 21 de octobre, lu popolo de Spoliti andò in nel contado de Fuligno in nella montagna, et arse lu burgu de Verchiano et le case delle ville de Rasciglia et de più de sey fémene sforzate, fo dicto”. Poiché si credette che alla spedizione avessero preso parte anche i trevani, nel momento in cui questi nel maggio del 1483 chiesero un patto di concordia con Foligno, vennero ricambiati con un netto rifiuto anzi, da allora Foligno iniziò di nuovo ad armarsi ed i contrasti si acuirono al punto tale che i folignati prendendo a pretesto l’uccisione di un giovane di Scandolaro, certo Berardo di Martino, nel luglio del 1484 iniziarono la guerra contro Trevi. Gli spoletini allora armarono 4000 uomini e dettero inizio ad una controffensiva. Di notte tempo, partendo dal castello di Orsano in loro possesso, assaltarono il paese di Verchiano devastando la zona e depredando gli abitanti. Stessa sorte subirono le località montane di Armalupo, Cancelli, Cascito, Cupacci, Acqua S. Stefano e Morro. La chiesa di S. Martino di Morro fu spogliata di tutti gli arredi sacri per un danno stimabile all’epoca di oltre 150 fiorini. Alla notizia di tali gravi incidenti che erano anche costati la vita ad un verchianese, certo Domenico Jacobillo, papa Sisto III inviò come commissario pontificio Mons. Goffredo Moroni, che istituì un processo contro gli spoletini ed emise dure condanne per gli istigatori dei moti. Trenta di loro, accusati di omicidio, incendi ed azioni sacrileghe, oltre alla confisca dei beni, furono condannati insieme al Comune di Spoleto al risarcimento dei danni, computati in 17355 fiorini da pagarsi entro un mese dalla sentenza. Il 14 luglio 1496, dopo anni di cruenti scontri, furono fissati i confini tra Foligno e Spoleto. Successivamente non ebbero più a verificarsi fatti gravi in quei territori, se non sul finire del 1522, allorché si ebbe notizia che Spoleto aveva di nuovo occupato Sellano e subito dopo Verchiano e Roccafranca, ma anche in questo frangente il deciso intervento di papa Adriano VI fu provvidenziale. Proprio in quel periodo infatti vennero messi a punto i Capitoli riguardanti i Castellani, con l’ambito territoriale in cui doveva esplicarsi la loro attività. Al castellano di Verchiano, fu accordata la giurisdizione solo su Verchiano e sue pertinenze. Negli anni seguenti con l’avvento diretto dell’amministrazione pontificia, anche questo castello, perse la sua importanza strategica in quanto non più di confine. Posto a 811 metri di altezza, sulla sommità di un costone dal quale si domina sia la Via della Spina che l’alta Valle del Menotre, vi si giunge agevolmente oltrepassando l’abitato di Verchiano e percorrendo la strada sterrata che conduce a Roccafranca ed al Santuario di S. Salvatore. Dopo circa due chilometri seguendo l’indicazione Popola – Cesi, sulla sinistra a circa 100 metri dalla strada, si scorge l’imponente torre dell’ingresso principale. Del castello a forma quadrangolare, rimangono solo pochi ruderi delle antiche mura, mentre si conservano abbastanza bene le quattro torri, anche perché dopo il terremoto del 1997, le stesse sono state oggetto di ristrutturazione da parte della sovrintendenza alle Belle Arti di Perugia. A tutt’oggi si sta ancora lavorando per il restauro di quella posta sul lato sud del fortilizio. Altri link suggeriti: https://www.youtube.com/watch?v=pxAQ7asGHAM (video di Vania Cavicchioli dal minuto 2:15), scheda di Stefano Favero su https://www.mondimedievali.net/Castelli/Umbria/perugia/verchiano.htm, http://www.luoghidelsilenzio.it/umbria/02_fortezze/03_folignate-spoletino/00016/index.htm

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Verchiano, http://www.iluoghidelsilenzio.it/castello-di-verchiano-verchiano-di-foligno/

Foto: le prime due sono del mio amico e “inviato speciale” Claudio Vagaggini (scattate lo scorso 29 luglio), mentre la terza è presa da http://www.iluoghidelsilenzio.it/castello-di-verchiano-verchiano-di-foligno/

mercoledì 22 agosto 2018

Il castello di giovedì 23 agosto



CHIUSDINO (SI) – Castello di Frosini

Il piccolo borgo di Frosini si trova sulla Strada statale 73 Senese Aretina, nel tratto compreso tra Monticiano e Rosia. Di origini molto antiche – è infatti ricordato in documenti dell'XI secolo – era di proprietà dei Conti della Gherardesca (è nominato per la prima volta nell’atto di donazione del monastero di S. Maria di Serena presso Chiusdino del 1004) e rivestiva un ruolo difensivo importante, soprattutto per la presenza di un castello in posizione strategica sulla strada Massetana che conduceva da Siena alle Colline Metallifere ed alla Maremma. Questo piccolo abitato si trovò spesso al centro di controversie tra i Della Gherardesca, legati da vincoli di fedeltà al vescovo di Volterra, e Siena, che alla fine nel 1215 ne prese la sovranità. In seguito divenne possesso dei beni della vicina abbazia di San Galgano per decreto del Concistoro della Repubblica Senese. Successivamente il castello si trovò sotto l'influenza dei Pannocchieschi, nominati in un atto del 1134 redatto a Pisa. Nel secolo XIII fu eretto a Frosini uno spedale per i pellegrini che transitavano sulla vicina Via Francigena. Dopo il secolo XIV il territorio di Frosini fu definitivamente incorporato nel vasto patrimonio dell'Abbazia Cistercense di S. Galgano. Da allora in poi fu affidato in commenda a prelati o porporati. L'ultimo commendatario, il cardinale Giuseppe Maria Feroni, sotto il governo di Pietro Leopoldo, lasciò la tenuta in eredità ai suoi nipoti. Il marchese Leopoldo Feroni di Firenze, a cui toccò di parte la fattoria di Frosini, ristrutturò la tenuta, intraprese nuove coltivazioni e fece erigere una nuova chiesa all'ingegner Baccani di Firenze. Al castello, come sopra detto, c'era uno spedale per pellegrini. Ma notizie storiche più precise ci riportano la presenza, dal XII al XIV secolo, di una "magione" dei Cavalieri Templari (la "Mansio Templi de Fruosina"), certamente rifugio di pellegrini e viandanti ma anche base del potente e misterioso ordine cavalleresco. Numerosi atti attestano i rapporti tra la vicina abbazia di San Galgano e i templari di Frosini: si tratta di donazioni e vendite di terreni e poderi nel circondario. Da questi atti si scopre una forte presenza templare in tutta la zona che ospitava altre magioni e poderi sotto il diretto controllo templare. Nei toponimi, nelle costruzioni e nei segni sui monumenti restano varie testimonianze di questa presenza. Da menzionare è la chiesa di San Michele Arcangelo, in uno spiazzo antistante il castello, minuscola, in stile romanico, tipico delle costruzioni templari. La dedica all'Arcangelo si può far risalire alla devozione a San Galgano. Secondo la leggenda San Michele apparve in sogno al Santo a indicargli la via da seguire. San Michele è un santo guerriero, ritratto sempre a spada sguainata infatti è il santo dei Cavalieri, e ovviamente dei templari. Innumerevoli sono i luoghi di culto legati ai templari e intitolati a lui: un'altra conferma della presenza dell'ordine a Frosini. Inoltre i Templari avevano edificato nelle vicinanze, in località Valloria nella valle del torrente Feccia, affluente della Merse, anche una chiesa in stile romanico. Il castello, ora di proprietà privata (è una rinomata location per ricevimenti di nozze), rimane oggi in posizione dominante sul borgo, anche se risulta significativamente modificato in seguito allo smantellamento delle fortificazioni e la sua trasformazione in villa signorile. Attualmente si stenta a riconoscerne la struttura, che è stata molto alterata. Sono comunque ancora visibili ampi tratti delle mura esterne ornate di merli ghibellini, l'antica porta d'accesso in pietra, sormontata da una formella in marmo con immagine di San Galgano, e la chiesetta romanica di San Michele Arcangelo, sopra descritta. La storia legata al castello di Frosini nasce dalla presenza nella rocca di strani eventi parapsicologici che videro come principale protagonista, nei decenni passati, l’apparizione di un fantasma trecentesco. La leggenda vorrebbe che tale apparizione fosse legata al morbo oscuro, la peste, che nel XIV secolo colpì il centro Italia seminando morte e desolazione in centinaia di villaggi e comunalità del paese. Entro pochi mesi dalla sua apparizione tutti gli abitanti del castello di Frosini e dei suoi borghi limitrofi erano morti del terribile male. Solo Ilario Brandani sembrava riuscire a scampare al morbo, molti dicevano perché fosse un negromante ed un conoscitore di antiche formule per evocare i morti. Molto più razionalmente Brandani, che fu sicuramente avvezzo a discipline negromantiche ed esoteriche, si era rifugiato e rinchiuso all’interno della rocca di Frosini con i cadaveri ed il silenzio come unici compagni. Lontano dal male non poteva venire infettato e per scampare all’inguaribile piaga le leggende vogliono che fosse rimasto chiuso nel castello per anni ed anni. La morte ben presto sopraggiunse, una morte naturale forse dovuta agli stenti patiti e non dovuta alla peste. Tale tragico evento avrebbe sancito l’inizio della leggenda innalzando la sua memoria ed il suo ricordo nell’alveo della storia. La leggenda di Brandani costituisce quasi un unicum folclorico nell’intero del territorio nazionale italiano presentandoci la figura di un fantasma quasi alla stregua di un vampiro nonché in grado, con il semplice sguardo, di trasformare i vivi in creature delle tenebre. Insidiatosi nel folclore locale la leggenda narra che colui il quale incautamente fosse venuto a contatto con lo spettro del negromante si sarebbe ritrovato ben presto trasformato in un non morto, o in un morto vivente, ricollegandosi a quelle tradizioni e leggende europee che vedrebbero nell’esistenza di esseri demoniaci e notturni la testimonianza di un potere occulto e demoniaco attorno ai vivi. La differenziazione attribuita a questo fantasma, ovvero la sua capacità trasformativa verso i vivi, potrebbe essersi originata dagli stessi interessi negromantici che in vita affiancarono il Brandani. Il suo eremitaggio forzato nel castello aggiunse probabilmente quel tocco noir agli eventi che nella cultura popolare furono filtrati per la costruzione del mito. Coloro che fossero talmente curiosi da ricercare prove nell’antico cimitero si ritroverebbero ben presto a vagare tra povere tombe ormai in rovina, ponendosi la giusta domanda nel ricercare ove fossero stati seppelliti tutti i corpi colpiti dal morbo. Una fossa comune non ancora scoperta si potrebbe dedurre, ma non sono pochi coloro che nel passato ritenevano tali corpi vicini a quelli del Brandani, loro capo e maestro.
Le ripetute chiusure a cui il castello fu sottoposto sia nel XX secolo come in quelli precedenti accreditarono tra gli anziani del posto l’idea che la figura del negromante si aggirasse ancora nelle stanze abbandonate del castello condannando coloro che vi si fossero avventurati ad una morte eterna nel mondo dei vivi. Altro link per approfondire: https://www.youtube.com/watch?v=CN20Kt_3tB0 (video di Artemide Caccia).

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Frosini_(Chiusdino),
http://www.lamiaterradisiena.it/Castello%20di%20Frosini/castellofrosini.htm

Foto: la prima è presa da http://www.bookwedo.com/index.php?option=com_jomres&Itemid=0&lang=it&task=viewproperty&property_uid=58, la seconda è presa da https://www.audaxitalia.it/index.php?pg=calendario_brevetti&org=62&obid=22

martedì 21 agosto 2018

Il castello di mercoledì 22 agosto




IRSINA (MT) – Castello svevo e Palazzo Ducale Nugent

Irsina è uno dei paesi più antichi della Basilicata, come testimoniano numerosi reperti archeologici risalenti ai periodi greco e romano. Dal Medioevo fino al 6 febbraio 1895 il nome del paese era Montepeloso. Per quanto riguarda l'etimologia, sembra che il nome Montepeloso derivi dal greco plusos, che vuol dire terra fertile e ricca, modificato inpilosum dai latini. Il nome attuale sembra derivare dal latino Irtium. Fu assediata ed invasa nell'895 dai Saraceni, che nel 988 la distrussero; fu ricostruita dal Principe Giovanni II di Salerno e fu contesa tra i Bizantini ed i Normanni. Il territorio di Irsina fu al centro della battaglia di Montepeloso, combattuta il 3 settembre 1041, a breve distanza dalle rive del fiume Bradano. L'esercito Bizantino era guidato da Augusto Bugiano (Boioannes); le forze Normanne erano comandate da Atenolfo, fratello del Principe di Benevento, che coordinava anche i militari Longobardi. I cavalieri erano guidati da Guglielmo d'Altavilla e da Argiro. I Normanni lanciarono la prima carica, mentre i Greci accusarono il colpo e caddero a centinaia. Guglielmo I d'Altavilla era infermo, ma lasciò la sua tenda, posta sopra una altura, e si lanciò nella mischia. Secondo il cronista Guglielmo di Puglia, i cavalieri normanni sbaragliano le forze Bizantine e le truppe che provenivano dalla Calabria, dalla Sicilia e dalla Macedonia ed un gruppo di mercenari Pauliciani. Secondo lo storico De Blosiis, l'eroe della battaglia fu Gualtiero, figlio del Conte Amico. I bizantini vennero ricacciati dalle truppe Normanne, che risultarono vincenti e, pertanto, la città passò sotto il dominio normanno. I Normanni catturarono Augusto Bugiano, lo trasferirono a Melfi insieme con le insegne bizantine e poi a Benevento lo consegnarono ad Atenolfo. Secondo la cronaca di Amato di Montecassino, Tristano, cavaliere al seguito della casata Altavilla nel territorio del Vulture, fu il primo Conte normanno di Montepeloso, una delle dodici baronie di cui si componeva la Contea di Puglia. Nel 1059 al Concilio di Melfi I, il Pontefice Niccolò II, elevò la Contea di Puglia a Ducato di Puglia e la affidò alla Casata Altavilla. Il secondo Signore della città, nel 1068, fu Goffredo, conte di Conversano, un nipote di Roberto il Guiscardo. Nel 1123 il papa Callisto II con una bolla elesse Montepeloso a sede vescovile, anche per contrastare la presenza bizantina ancora forte nel paese. Nel 1132 i cittadini aderirono alla rivolta contro Ruggero II e Montepeloso divenne feudo di Tancredi di Conversano, conte di Brindisi, ma l'anno successivo Ruggero II la punì per essersi schierata con i ribelli e la fece radere al suolo. Nel periodo svevo fu annessa alla contea di Andria e dopo la morte di Federico II divenne un marchesato sotto la signoria di Manfredi. Nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, passò sotto il dominio degli Angioini che la donarono a Pietro di Beaumont conte di Montescaglioso e successivamente a Giovanni di Monfort. Nel 1307 passò al dominio degli Orsini Del Balzo, che la persero in seguito alla congiura dei baroni, quando subentrarono gli Aragonesi. Nel 1586 venne acquistata dalla ricca famiglia genovese dei Grimaldi ed infine passò ai Riario Sforza, che furono gli ultimi signori feudali di Montepeloso. Nel 1799 aderì ai moti repubblicani innalzando l'albero della libertà, ben presto soffocati dalle truppe del cardinale Fabrizio Ruffo. Dopo l'unità d'Italia fu interessata dal fenomeno del brigantaggio. Nel 1895 il consiglio comunale decise di cambiare il nome del paese da Montepeloso a Irsina. L’abitato conserva ancora parte dell’antica cinta muraria che circonda il centro storico, due torri cilindriche poste all’estremità del paese e le due antiche porte d’accesso, Porta Maggiore detta di Sant’Eufemia e Porta Lenazza detta anche Arenacea. Del castello di Irsina altro non si sa che era d'impianto normanno rimaneggiato in seguito da Federico di Svevia nel 1228. Oggi non esiste che una piccola torre, presso Porta Arenacea e dalla parte opposta di detta porta dovette esserci un'altra torre, considerato che il luogo ancora viene denominato “la Torretta”. È certo che una tradizione riferisce che il castello di Irsina fu donato da Federico II a S. Francesco d’Assisi, il quale, giunto a Montepeloso, vi inaugurò un comodo convento che fu, poi, condotto a termine dai suoi seguaci. Fu sempre sede di un ricco convento, nonostante la notizia che durante il regno degli Angioini si fosse tentato di scacciarne i frati, che si erano mantenuti fedeli agli Svevi. Oggi appare nell'aspetto cinquecentesco, diventato convento, la cui cripta è stata ricavata dal fondo di una torre quadrangolare del castello del 1100. Il palazzo Ducale Nugent è stato edificato sul precedente castello medioevale risalente al XIV-XV sec. ed ingloba la porta Maggiore, o di Sant’Eufemia, principale punto di accesso alla città. Nel XVIII secolo i feudatari di Montepeloso, i Riario Sforza, trasformarono la fortezza in residenza della famiglia. La struttura, difesa all’esterno da un’alta cortina muraria, si sviluppa intorno ad una corte quadrangolare alla quale si accede dal portale finemente lavorato. Il pozzo è decentrato rispetto alla sua posizione usuale al centro del cortile. Sulla corte si affacciano le tre ali del palazzo che si sviluppa su due livelli: al primo ci sono locali con volte a botte destinati a magazzini, al secondo gli appartamenti del feudatario. L’edificio costituisce la testimonianza della significativa presenza dei conti Nugent nella storia locale di fine secolo XIX. Il feudo di Montepeloso giunse all’ultima discendente dei Nugent, la contessina Margherita Nugent nata nel 1881 e morta nel 1954. Altro link suggerito: http://lucania1.altervista.org/irsina/index.htm (dove vedere foto di tutti i monumenti del paese).

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Irsina, http://www.basilicatanet.com/ita/web/item.asp?nav=irsina, http://www.old.consiglio.basilicata.it/conoscerebasilicata/cultura/percorsi/castelli/irsina.htm, http://www.aptbasilicata.it/I-Castelli.51.0.html, http://www.comune.irsina.mt.it/visitairsina/i-palazzi-storici/, http://www.sassilive.it/cultura-e-spettacoli/terza-pagina/palazzo-nugent-tra-le-priorita-della-provincia-di-matera/

Foto: la prima è di GiTaddeo su http://lucania1.altervista.org/irsina/page1g.php?x=4&mini=f05ff.JPG, la seconda è presa da http://www.aptbasilicata.it/Galleria-Immagini.1530+M5a58361a03c.0.html (dove potete trovarne altre). Infine la terza, relativa al palazzo Ducale Nugent, è presa da http://www.comune.irsina.mt.it/visitairsina/i-palazzi-storici/

lunedì 20 agosto 2018

Il castello di martedì 21 agosto



ALBIZZATE (VA) – Castello Visconti

Benché le prime notizie storiche scritte su Albizzate risalgano al XIII secolo (l'esistenza di una chiesa parrocchiale è citata nell'elenco del "liber notitiae sanctorum Mediolani"), il ritrovamento nel territorio di un ara votiva romana fa risalire a quell'epoca i primi insediamenti e forse l'origine del nome che potrebbe derivare da latino Villa Albuciatis. Probabilmente entrata a far parte del territorio del contado del Seprio, viene più tardi citata come in un documento datato 997 d.C. in cui Ottone III la concede al Conte di Angera divenendo poi uno dei primi possedimenti viscontei del sepriese (1142) e rimanendo possesso dei Visconti di Albizzate fino al XVII secolo. A testimonianza di questa signoria rimangono lo splendido Oratorio Visconteo, affrescato con scene della vita di San Ludovico di Tolosa e di San Giovanni Battista alla fine del XIV secolo, e il Castello, affacciato sul ciglione prospiciente la vallata dell'Arno in posizione strategica a controllo della vallata e in collegamento con le altre opere difensive viscontee della zona. Agli inizi del Seicento esso fu trasformato in residenza di villeggiatura per poi divenire, a metà del XIX secolo, centro di attività produttive legate all'allevamento del baco da seta e all'attività di una filanda. Rimase contemporaneamente centro produttivo e residenziale fino agli anni '40 del Novecento. La sua importanza all'interno del suo paese è confermata dall'espandersi del centro storico albizzatese con andamento radiale, mantenendo sempre al centro il castello, che venne continuamente ampliato e adeguato negli anni alle nuove esigenze. Le vicende relative al Castello di Albizzate, le sue modifiche e trasformazioni sono direttamente legate alla presenza della famiglia Visconti. Eletto feudo nel 1142, Albizzate restò loro possedimento sino alla fine del XVIII secolo, con l’estinzione del ramo nobiliare e la confluenza della discendenza rispettivamente nelle famiglie Archinto e Taverna. La scarsità delle fonti documentarie e la complicatezza delle sovrapposizioni di elementi architettonici cronologicamente disomogenei non consentono di datare o di formulare alcuna ipotesi per collocare con precisione il periodo di costruzione del manufatto. Le prime notizie certe sulla sua presenza risalgono al XVII secolo. Alla morte di Cesare Visconti (1633), in data 6 luglio è redatto un elenco completo dei beni immobili in suo possesso; in esso, fra “li beni immobili ... in Albizate”, compare il castello, descritto come “una casa da nobili d.a (detta) il Castello con suoi appartamenti giardini corte et torchio con un roncho avidato”. La descrizione è senza dubbio parca di informazioni tuttavia, da quanto riporta di seguito, si rileva la centralità della fabbrica rispetto all’antico borgo; infatti nel documento si legge che il castello è “circondato da case coherenti da tre parte strada e dalla altra strada da li beni del Sig. Cesare Visconti”. Risale al 1665 il primo intervento edilizio sull’edificio del quale siano giunte notizie. Una targa tuttora affissa al portico del castello precisa che ne furono artefici la marchesa Anna Stampa Visconti (discendente diretta di Cesare) e il marito, il marchese Geronimo Stampa. Le informazioni sono di nuovo poche ma precise: infatti il documento riporta che lo stato di conservazione era “fatiscens” e che i lavori erano finalizzati “ad avorum memoriam ed rusticationis commoda”, trattandosi di una casa di villeggiatura. Gli eventi che da allora interessarono il ramo albizzatese dei Visconti ebbero conseguenze anche sulle sorti del castello. Nel 1666 morì Geronimo Stampa; nonostante il suo testamento (rogato l’11 ottobre 1666 da Francesco Maria Purino) sia andato perduto, è certo che i suoi beni (castello incluso) furono ereditati dall’unica figlia Camilla Stampa, sposa del Conte Senatore Filippo Archinto. Successivamente, tramite testamento rogato in punto di morte da Giovanni Francesco Stellari il 21 gennaio 1715, Camilla nominò suoi eredi i figli Carlo e Gerolamo, monsignore Nunzio Apostolico. Non è certo a chi dei due passò l’edificio ma è sicuro che ne divenne erede Carlo Archinto, figlio di Filippo. Nel Catasto Teresiano, pubblicato nel 1722, il Castello è riportato a suo nome, con il numero di mappa 460, come “casa parte di proprio uso e parte da massaro. Quantità p. 5,17”. La mappa teresiana è il primo documento grafico dell’edificio; il perimetro è incerto, ma la collocazione è precisa e inconfondibile: dominante sulla valle del Torrente Arno, centripeta rispetto al borgo. I documenti d’archivio disponibili consentono di ricostruire, sino a circa metà del XIX secolo, i soli passaggi di proprietà avvenuti per via ereditaria all’interno della famiglia Archinto. Nuovi interventi sull’edificio risalgono agli anni tra il 1847 e il 1857; l’Annotatorio dell’estimatore riporta che in quel periodo vennero aggiunti 14 luoghi dei quali 4 furono ricavati da vani esistenti. Fra i documenti redatti per la formazione del nuovo Catasto si ricavano altre utili notizie dalle “Tavole per la descrizione e stima dei fabbricati”. L’edificio è riportato con il numero di mappa 62: di condizione mediocre, 42,1/4 luoghi di abitazione per un totale di 49 ambienti; la proprietà non è più la famiglia Archinto, ma il Consorzio dei Creditori del Conte Luigi Archinto. Molto importante è il cambio di destinazione a “fabbrica per azienda rurale”. Nel 1873, mantenendo la funzione rurale, subentrò nella proprietà, per acquisto di tutta la partita degli Archinto, Francesco Bruni, ingegnere attivo nel campo della produzione setiera. Una seconda targa affissa nel portico del Castello indica che questo passaggio di proprietà comportò modifiche all’edificio ed in particolare che “Bruni Franciscus aquirens / iterum concinnavit anno MDCCCLXXIII”. Nel 1880 la particella n. 62 venne frazionata nei numero 62 (casa rurale) e 989 (il castello), casa di abitazione, pertiche 2,00, due piani, 10 vani. La registrazione sulla mappa catastale, nel 1880, riporta la forma dell’edificio, invariata rispetto a come compariva nel Cessato Catasto Lombardo nel 1873. Una modifica sostanziale fu compiuta fra il 1880 e il 1890, riportata nella revisione generale del 1890; si tratta di un ampliamento mediante aggiunta di un volume verso il giardino. Contestualmente i registri catastali annotano un importante cambiamento di composizione (2 piani, 32 vani) e di destinazione d’uso, mediante l’introduzione della dizione “casa con filanda”. Nel 1915 al cambio di proprietà avvenuto tra gli eredi componenti della famiglia Bruni corrispose una divisione anche delle funzioni con l’introduzione di una nuova destinazione; l’edificio, passato nel 1904 al Catasto Urbano, venne frazionato in due proprietà, la n. 25 “casa e filanda” e la n. 1113 “casa e bottega”. Le notizie riguardanti interventi successivi che comportino modifiche alla fabbrica sono relative al secondo dopoguerra. E’ sicuramente importante la realizzazione di un “Progetto per l’attuazione di n. 6 appartamenti in un edificio esistente in Albizzate e di proprietà della Sig.ra Maria Bruni Fagnani”. La modifica, localizzata sopra la filanda, comportò notevoli trasformazioni con la demolizione di una volta al primo piano per realizzare una scala di accesso e con la divisione di un salone, al primo piano, in alloggi. Nel 1965 nel piano ammezzato del lato sud fu ricavato un alloggio mediante “trasformazione di una bigattiera in locali di abitazione”. Altro link suggerito: http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1A050-00475/

Fonti: http://www.comune.albizzate.va.it/c012002/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/20002

Foto: entrambe di Maria Marinella su http://www.ilvaresotto.it/Castelli/Albizzate_Castello.htm

domenica 19 agosto 2018

Il castello di lunedì 20 agosto



RAFFADALI (AG) – Palazzo del Principe

Il toponimo Raffadali è stato ipotizzato originario dall'arabo رحال افدال (Rahl-Afdal), che significa "villaggio eccellente". Sul finire dell'XI secolo con il castello di Monte Guastanella, il feudo fu concesso alla famiglia Montaperto. Nel 1177 compare per la prima volta nei registri della diocesi di Agrigento una comunità denominata "Cattà" e nel Trecento il villaggio aveva una parrocchia dedicata a San Leonardo, oggi scomparsa. Compare anche la denominazione di "Raafala" nei registri delle rendite ecclesiastiche della diocesi. Passata nel secolo XIII con gli Angioini alla famiglia Nigrell e poi a Bonmartino di Agrigento, tornò da questo per permuta nel 1289 ai Montaperto che la tennero con alterne vicende fino alla fine del secolo XIV; appartenne nel XIV secolo anche a Scaloro degli Uberti per eredità Montaperto. L'odierna cittadina venne fondata sulle rovine dell'antico casale nel 1481. Nel 1507 Pietro Montaperto ottenne dal re Ferdinando lo "ius populandi" per la espansione dell'agglomerato urbano, e iniziò i lavori di consolidamento del castello e di costruzione della chiesa madre. Nel 1649 Giuseppe Nicolò Montaperto, intervenne per reprimere una rivolta degli agrigentini contro il vescovo Trajna, accusato di costringere la popolazione alla fame. Per premiare il coraggio e la fedeltà dei Montaperto, Filippo IV di Spagna insignì la famiglia feudataria di Raffadali del titolo principesco. L'ultimo signore di Raffadali fu Salvatore Montaperto Valguarnera. Agli inizi dell'Ottocento Raffadali si trasformò da borgo del feudo a borgo rurale di piccoli e medi proprietari, rimanendo ai vecchi feudatari il diritto enfiteutico sulle frazioni del fondo. Il Palazzo del Principe, in passato residenza dei principi di Montaperto, originariamente era una fortezza e ciò si può desumere dalla torre di base, nel lato Sud-Ovest, che si presenta ancora oggi nella sua interezza. Successivamente venne trasformato, durante il Rinascimento, in residenza signorile. Nel corso dei secoli subì la distruzione di una delle torri e delle merlature. Nei suoi sotterranei si trovano antiche macchine di tortura utilizzate dai principi di Montaperto e un tunnel collegava la residenza alla chiesa madre. Altro link suggerito: https://www.youtube.com/watch?v=GTOOloO3p24 (video di PiccolaGrandeItalia.tv, dal minuto 9)

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Raffadali, http://www.comune.raffadali.ag.it/public/pagine.asp?id=11

Foto: la prima è una cartolina della mia collezione, la seconda è presa da https://www.ialmo.it/identita/raffadali/