ISOLA CAPO RIZZUTO (KR) – Torre di S.Pietro in Tripani
Situata ai confini del territorio di Isola con quello di Cutro, la località
fu abitata fin dai tempi più remoti. Numerosi sono i resti di insediamenti
accertati lungo la vallata di Tripani e sono riferibili al periodo neolitico e
all’età del ferro. Tombe e ritrovamenti vari di epoca romana fanno ritenere
quasi certa la presenza di una villa romana in età imperiale. (Sabbione C.,
Crotone, in Atti del XVI Convegno di Taranto 1976, p. 937). All’alto medioevo
sembra risalire la chiesa di San Pietro, costruita in località Tripani. Il
casale di Santo Pietro di Tripani era situato al limite della difesa regia di
Isola. Di natura sua demaniale e come tale ricadente nell’amministrazione
regia, la difesa o foresta di Isola compare nei primi documenti angioini.
Da questi atti si desume che già in precedenza durante la dominazione normanno
–sveva, essa era stata soggetta alla tutela dei funzionari regi detti
forestarii, che avevano il compito di sorvegliare le foreste del demanio regio.
L’assalto alla foresta iniziato intorno al Mille con l’aumento della
popolazione ebbe per protagonisti i vescovi ed i feudatari i quali fondarono
casali al limitare della foresta, erodendola col fuoco e mettendone a coltura
alcune parti. Protagonisti di questo primo disboscamento furono i vescovi
isolani, i quali ottennero prima dal duca Ruggero e poi dal re Ruggero II ampi
privilegi sia a favore della chiesa, che per coloro che fossero andati a
popolare la città ed i nuovi casali, fondati sulle proprietà del vescovo. Originariamente
demanio all’interno del territorio crotonese, con lo smembramento del
territorio di Crotone, quando il casale di Torre di Isola fu dato in feudo a
Giovanni Pou nel 1483, “il Bosco” andò a far parte del territorio isolano ma
sempre in quell’anno vennero riconosciuti i diritti dei Crotonesi di potervi
pascolare e tagliar legna franchi di fida e di qualsiasi altro pagamento.
Confiscati i beni del Pou, a causa della sua ribellione,il feudo fu
amministrato dalla Regia Corte e concesso a Enrico d’Aragona. E’ del 1487 la
riassunzione fatta dal vescovo Bonadeo della convenzione stipulata a suo tempo
tra Enrico de Aragona, figlio naturale di re Ferrante e “Dominus Civitatis
Insulae”, ed il vescovo di Isola per il pagamento di quindici ducati per il
tenimento di Tripani e le terre di Pilacca. La chiesa isolana rimase pienamente
in possesso delle terre e del casale finché nel 1538 il procuratore del vescovo
Cesare Lambertino non li concesse in enfiteusi a Joanne Antonio Ricca,
feudatario di Isola, per 16 ducati annui, riservandosi tre tomolate di terra ed
i mulini di Scipione Sancto Crucis e del crotonese Melcione Barbamaiore. L’atto
di concessione fu stipulato due anni dopo con l’approvazione regia tra il
vescovo ed il figlio del barone. Il feudatario ripopolò il casale con “greci e
schiauni”; nel 1541 furono censiti ben 27 fuochi (Maone P., Gli Albanesi a
Cotronei, Historica 4/1972, p. 191). Il casale mantenne la sua popolazione
anche nei primi decenni della metà del Cinquecento. Nella rilevazione del
1564/1565 “Santo Petro del Isola” fu tassato per 45 fuochi, secondo la vecchia
numerazione, ma dal terzo di Natale del 1565 i fuochi furono ridotti a 35. Per
la forte tassazione e per il pericolo turco molti abitanti cominciarono a
lasciare il casale. Quel che è certo è che durante la baronia di Cesare Ricca
(1555-1580) il casale spopolò: nella tassazione del 1578 infatti non risulta
più in quanto “casale dishabitato”. Cercando di contenere le usurpazioni del
barone il vescovo Caracciolo tentò di ripristinare per quanto gli fu possibile
i diritti della chiesa isolana sia sul corso che sulla baronia di san Pietro di
Tripani dapprima con un accordo col barone Cesare Ricca, stipulato nel 1567, poi
con una nuova convenzione fatta nel 1579 nella quale si dichiarava che la
baronia era stata concessa dai vescovi passati ai baroni di Isola ma la
concessione era imperfetta essendo priva dell’assenso e beneplacito apostolico,
da richiedersi a spese del barone, come era richiesto per simili atti. Il 12
dicembre 1594, dopo aver visitato la chiesa della SS.ma Annunziata del casale
di Massanova, il decano Nicola Tiriolo con il suo seguito si recò a visitare la
chiesa del casale di Santo Pietro de Tripano, casale da più anni spopolato
e senza abitanti. Trovò la chiesa non solo scoperchiata e senza porte ma piena
di sterchi di pecore, di sterpi e di rovi, talmente che non vi si poteva
entrare. Pertanto ordinò di prendere informazioni e vietò di celebrarvi nel
frattempo fece chiudere le porte con pietre affinché non vi potessero entrare
animali. Morto nel maggio 1599 il barone Gaspare Ricca subentrò nel feudo di
Isola il figlio Antonio, al quale si deve la costruzione della torre, che così
è descritta nell’apprezzo del 1633: “Dentro questo territorio detto San Pietro
è una torre quadrata grande, fatta con molta spesa, forte per ogni assalto
inimico, have habitationi superiori, et inferiori, e s’entra in essa per ponte,
et anco in detto territorio un molino, il quale con alcuni territorii baronali
s’affitta e se porta compensamente in docati dieci” (Carnì M, Isola di Capo
Rizzuto in età moderna. Nuove prospettive da un apprezzo inedito del 1633, in
Quaderni Siberinensi, a. 2009, p. 60). Colpito dalla malaria e dai debiti,
Antonio Ricca, barone di Isola, fu costretto a mettere all’asta il feudo nel
Sacro Regio Consilio, che comprendeva la città di Isola con tutti i suoi
diritti e membri, compreso Santo Pietro, che è comprato nel 1634 da Francesco
Catalano, figlio di GiovanLoise e di Isabella Ricca. Alla sua morte seguì
l’anno dopo il figlio Loise. Il nuovo barone Loise Catalano Sorrentino si
impossessò allora direttamente del baronato di Santo Pietro di Tripani, non
riconoscendo alcun diritto alla chiesa isolana sull’investitura del feudo. La
baronia che era stata data a suo tempo ai Ricca ed ai loro eredi in enfiteusi
come cittadini privati e non come baroni di Isola, con la condizione che se non
fosse stata rispettata questa clausola, doveva ricadere di nuovo in possesso
della chiesa, era passata in proprietà del barone senza il consenso del
vescovo, che lo richiedeva, tanto più che come baronia era da ritenersi feudo
nobile, come lo dimostrava la prima investitura fatta dal vescovo Cesare
Lambertino ad Antonio Ricca, e non quindi un qualsiasi bene feudale. Il
territorio di Santo Pietro seguì le vicende del feudo di Isola. Alla morte di
Loise Catalano seguì Giulia Catalano (1672) e quindi passò ai Caracciolo, duchi
di Montesardo, con Giuseppe Antonio (1690), Fulvio Gennaro (1722), Maria
Diodata(1745), Ippolita (1749), Fulvio Gennaro (1788) e quindi Ignazio Friozzi
(1798). Così la gabella di S. Pietro andò a far parte integrante della Camera
Baronale della città di Isola, mentre rimase alla mensa vescovile una
“gabelluzza S. Pietro di tt.a 40” ed un censo annuo. Nella zona rimase solo la
torre del barone, la chiesa, i ruderi dell’abitato e qualche mulino.
Nell’aprile 1749 F. di Bona, essendo morta Maria Diodata Caracciolo, duchessa
di Montesardo e principessa di Isola, su ordine dell’erede, la figlia Ippolita
Caracciolo, prese possesso del feudo che comprendeva tra l’altro un territorio
chiamato S. Pietro “ove si attrova una torre con una chiesa” (ANC. 1063, 1749,
1–10). Nel 1806 il barone Alfonso Barracco comperò dal feudatario Ignazio
Friozzi i diritti feudali su San Pietro e cercò di staccare la gabella dal
Bosco nel tentativo di ridurla a difesa restringendo cioè la possibilità da
parte dei cittadini di accedervi solo da ottobre ad aprile di ciascun anno,
cercando così di sopprimerne lo stato di demanio comunale. Ma l’operazione non andò
in porto per i tempi, infatti nel 1810 venne riconosciuto “luogo demaniale
aggregato al Bosco la gabella di S. Pietro” e l’anno dopo una disposizione del
Masci ribadì che “è aperta in tutti i tempi dell’anno la vasta tenuta ex
feudale detta Bosco co’ suoi vari membri chiamati S. Barbara, Vermica,
Finocchiara, Acquafredda e gabella S. Pietro, considerando che la gabella di S.
Pietro è corpo burgensatico” (Angelo Masci, Catanzaro 6 marzo 1811). In questi
anni la vecchia torre del casale venne restaurata, ampliata e fortificata con
la costruzione di quattro torrette angolari, come evidenzia ancora la data
1815. Attivo fu Luigi Barracco, figlio di Alfonso e di Emanuela Vercillo, il
quale l’anno dopo pose le premesse per completare il possesso di Santo Pietro
di Tripani, prendendo in affitto per cinque anni dal demanio la gabella di
Santo Pietro di tomolate 40 della mensa vescovile di Isola. La località riprese
vita soprattutto quando nel 1837 Luigi Barracco vi costruì un concio per la
lavorazione della liquirizia. Nel 1854 Alfonso Barracco, figlio ed erede di
Luigi e di Chiara Lucifero, vi fece costruire una moderna fabbrica, che nel
1865 fu potenziata con l’introduzione di una potente macchina a vapore. Nel
1909 lo stabilimento fu ampliato. Accanto allo stabilimento, al palazzo
baronale e alla chiesa sorse un vero e proprio insediamento di famiglie
operaie, che vitalizzarono il luogo. Negli anni Cinquanta la fabbrica diede
lavoro a circa un centinaio operai ed esportò il prodotto soprattutto negli
Stati Uniti D’America ma, con il cambiare dei gusti e con la Riforma agraria,
lo stabilimento chiuse e il luogo detto “Il Concio” fu temporaneamente
utilizzato come sede di attività agricola. Altri link utili: http://www.laprovinciakr.it/attualita/isola-capo-rizzuto-molti-beni-storici-risultano-deturpati
Fonti: testo di Andrea Pesavento su
http://www.archiviostoricocrotone.it/urbanistica-e-societa/storia-di-un-casale-scomparso-san-pietro-di-tripani-in-territorio-di-isola/
Foto: da
http://www.archiviostoricocrotone.it/sito/wp-content/uploads/2015/03/torri-60.jpg
e da http://www.archiviostoricocrotone.it/sito/wp-content/uploads/2015/03/Crot-1016.jpg
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