CEFALA’ DIANA (PA) – Castello Chiaramonte
Edificato tra il XIII e XIV secolo in cima
ad una rupe arenaria, a 657 metri sul livello del mare, il castrum ha sostituito il vecchio castellum normanno di cui giunse notizia attraverso un documento
del 1121 in cui, tra i confini di un podere nel territorio di Vicari, compare
«...viam castelli cognomento Cephalas».
Innalzato solo per questioni strategiche e militari, dalla sua posizione
particolare garantiva infatti un controllo generale riguardo la viabilità fra
Palermo e l'interno cerealicolo della Val di Mazara. Ben visibile dalla
fotografia aerea, un'altra via secondaria scende in linea retta dal castello al
celebre impianto termale conosciuto come bagni di Cefalà, cui, a partire almeno dal XIV secolo, era annesso
un fondaco con la funzione di albergo rurale. Queste notissime terme
(sottoposte nel 2000 a scavi archeologici con progetto di allestimento
museale), il castello trecentesco (già oggetto di interventi di restauro)
nonchè il sito normanno di monte Chiarastella (ancora da scavare) danno al
territorio dell'antica baronia di Cefalà un interesse eccezionale sotto il profilo
storico, archeologico, monumentale e paesaggistico. Nel XIV secolo la zona si
spopolò a causa di una epidemia di peste. Intorno al 1329 il maniero divenne, assieme
al castello d' Icla su monte Ciarastella e alla rocca di Sant'Angelo, parte
della triade di fortezze che la famiglia Chiaramonte realizzò per controllare i
suoi possedimenti, guadagnandosi presto la fama di "rocca
imprendibile". Vent'anni dopo, esso venne attaccato dai palermitani come
reazione contro un gruppo di predoni catalani, lì rifugiatisi, che taglieggiavano
e depredavano la città di Palermo dei viveri. Venuta meno l’aristocrazia
militare, in seguito alla restaurazione del potere monarchico, il castello
divenne magazzino per le masserie, prigione rurale e occasionalmente dimora
temporanea dei nuovi baroni che vi si avvicendarono (gli Abbate, gli
Ulezinellis, i del Bosco, i de Apilia, i de Falgar). Il suo aspetto rude, senza
alcun particolare decorativo, lascia immaginare una fabbrica priva di ogni
confort abitativo. In effetti di rado esso servì come abitazione ai baroni che
si trovavano a passare di lì e trascorrervi un ristrettissimo periodo di tempo.
Nel 1406 la baronia venne concessa agli Abbatellis, mercanti toscani, cui venne
confiscata nel 1503 dopo la ribellione degli ultimi membri della famiglia. Cefalà
venne donata al Gran Cancelliere di Carlo V, Mercurino Gattinara; nel 1525 fu venduta
al barone di Capaci Francesco Bologna. Prima di giungere a Nicolò Diana la
baronia appartenne all’Opera Pia delle Anime del Purgatorio. Nel XVIII
secolo i Diana, divenuti duchi di Cefalà nel 1684, fondarono il villaggio di
Cefalà Diana. Il castello è costituito da una cinta interna che riproduce la
configurazione del terreno, delimitando quindi una corte di pianta triangolare. L'ingresso al
maniero avveniva originariamente attraverso una torre, situata a sud, con due
vani porta, uno solo dei quali (chiuso da battenti di legno sprangabili
mediante una sbarra che scorreva in apposito alloggiamento nello spessore del
muro) è giunto fino a oggi. Nel punto più alto del sito sorge la torre mastra di pianta rettangolare
(lughezza 12,60 metri, larghezza 8,40 metri ed altezza 20 metri), ancora in
buone condizioni, costituita da tre livelli con una terrazza coronata da merli
ghibellini. Originariamente la porta d'ingresso alla torre si apriva nel muro
nord del primo piano, a 5 metri di altezza. Vi si accedeva tramite una scala
esterna in pietra, ancora in parte visibile. Il piano più basso, coperto da due
volte a botte, fungeva da magazzino e cisterna e comunicava col piano superiore
attraverso una botola. Altre aperture erano due strette feritoie strombate.
Entrambi i piani superiori sono ognuno di un vano, coperti da volte con mattoni
disposti a spina di pesce. Al piano nobile della torre si arrivava attraverso
un sistema di scale che, partendo dalla corte centrale, giungeva all’unica
porta del mastio sul lato nord. Quattro monofore strombate all’interno e con
ghiere di mattoni, due lungo i lati più lunghi del vano, illuminavano
l’ambiente, mentre una strettissima saettiera serviva per tenere sotto tiro
l’ingresso al castello. Nella volta si aprivano due stretti vani: il primo,
mediante una scale in legno, immetteva in una terrazza coronata da una
merlatura; il secondo permetteva lo sfogo al fumo del camino che illuminava e
riscaldava il locale sottostante.
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