venerdì 30 dicembre 2016

appuntamento al 2 gennaio !!


Il castello di sabato 31 dicembre





CROPALATI (CS) – Castello

Durante il primo Medioevo, il borgo si è sviluppato intorno a numerose grotte tufacee, scavate dai monaci per abitarvi e pregare. L'attuale centro cittadino sorse a fianco ad un castello feudale, verso il XIV secolo. Già appartenente allo Stato di Rossano, Cropalati appartenne ai Ruffo, ai Sambiase, ai d'Aragona Montalto (1507-1600) e ai Badolato (1600-1617), che vi incardinarono il titolo di Marchese. Ritornato allo Stato di Rossano nel 1617, vi appartenne fino al 1806 diventando feudo degli Aldobrandini e dei Borghese di Roma come baronia. Nel 1799, per ordinamento del Gen. Championnet, fu incluso nel cantone di Cirò. Nel 1807 divenne "luogo" del "governo di Cariati". Nel caratteristico centro storico del paese si conservano importanti testimonianze storico-monumentali ed artistiche, tra cui i ruderi del medievale Castello Feudale, forse risalente al XII sec., che poggiano su una roccia calcarea posta nel punto più alto del borgo e dominano la valle del Trionto. Il castello, legato indissolubilmente alla storia di Cropalati, costituì il fulcro attorno al quale si sviluppò il centro abitato.


Il castello di venerdì 30 dicembre






CORREGGIO (RE) – Torrione

Percorrendo la circonvallazione interna di Correggio provenendo da via Circondaria in direzione della Porta Modena (Piazzale Carducci), si nota con facilità, subito dopo l'incrocio semaforizzato con via Carlo V, un imponente ed elegante edificio che si erge alla sua destra. Un edificio dalle forme architettoniche certamente inusuali, ma al tempo stesso caratteristiche, ben noto ai correggesi che, puntualmente, lo hanno battezzato con un soprannome che ne fotografa la storia: Torrione. L’edificio, infatti, si erge là dove sorgeva il bastione detto di Carlo V che proteggeva l'angolo nord-orientale della cinta muraria correggese. Anzi, tutta la parte bassa della muratura in elevato presenta una singolare e caratteristica "scarpatura", cioè un'inclinazione verso l'esterno (dall'alto verso il basso): è quanto rimane della cinquecentesca cinta murata urbana utilizzata dai progettisti per costruire l'immobile. Oggi adibito a casa di accoglienza per anziani, è una delle più prestigiose e significative testimonianze di archeologia industriale urbana di stile liberty di tutto il territorio provinciale. Le sue origini risalgono al 1909 - 1910, allorché, durante la fase di abbattimento delle mura cittadine, l'imprenditore Placido Reggiani acquistò l'intera area per costruirvi un edificio destinato ad essicatoio di bozzoli, deposito di vinacce ed eventuale distilleria. Il progetto e la sua realizzazione furono affidati a Pier Giacinto Terrachini (1853 - 1935), eclettica figura di progettista che nel 1889 aveva realizzato uno dei prototipi dell'edilizia floreale in provincia di Reggio Emilia: un edificio scolastico (poi demolito) nella natia Rio Saliceto. Terrachini, con Camillo Bertolini, è stato uno dei protagonisti indiscussi della stagione liberty nel nostro territorio e il "Torrione" può a ragione essere considerato uno dei suoi capolavori. L'impegno di capitali profuso nella costruzione e nella decorazione dell'edificio fu assai cospicuo, ma l'attività non risultò mai remunerativa, tanto che nel 1926 Reggiani, di fronte alla crescente improduttività dell'azienda legata a produzioni di carattere stagionale, dovette  cederlo al Comune di Correggio che nel secondo dopoguerra lo sottopose ad una radicale trasformazione interna per adibirlo a residenza popolare per famiglie indigenti. Anche i restauri del 1983 confermarono la nuova vocazione ad edilizia sociale per anziani, giovani coppie e appartamenti protetti. L'edificio, dalla poderosa volumetria a ferro di cavallo, circoscrive un enorme cortile, un tempo delimitato da una elegante cancellata in ferro battuto nella quale spiccava, come testimoniano le fotografie d'epoca, un monumentale cancello ornato da grifoni. Una delle caratteristiche del Torrione è il sapiente uso del mattone a vista, colorato di giallo e di rosso per ottenere suggestivi effetti cromatici e ottici, ma soprattutto quella che a quei tempi era un'assoluta e rivoluzionaria novità: l'uso del cemento quale materiale decorativo. Fu questa una geniale intuizione di Bruto (1891 -1972), figlio di Pier Giacinto. Artigiano autodidatta di grande manualità e sapienza espressiva, è notissimo ai correggesi e ai reggiani per le centinaia e centinaia di terrecotte che ha realizzato nel  corso della sua vita, che rappresentano ancor oggi dei piccoli (per dimensioni) ma grandi (per qualità e forza espressiva) capolavori dell'arte plastica. Ebbene, questo geniale Bruto, al quale non è escluso si debba attribuire anche la scelta delle cromie dell'edificio, intuì che il cemento poteva avere anche una forte valenza e un grande utilizzo quale materiale per realizzare decorazioni plastiche di fortissimo impatto. Se si osserva il corpo di fabbrica di destra, per chi per guarda ponendosi di fronte al Torrione e che corrispondeva all'antica ala padronale, che con il quasi gemello di sinistra sporge rispetto al corpo centrale e delimita le due ali laterali del cortile, è molto facile notare i fregi ornamentali in cemento: ornamentazioni con motivi di pesci e delfini con tralci d'uva intrecciati  che decorano le imponente balaustrate, pinnacoli che sono collocati al temine delle lesene e l'emblema con la grande ancora affiancata da due delfini che svetta sul prospetto.



giovedì 29 dicembre 2016

Il castello di giovedì 29 dicembre






CORREGGIO (RE) - Palazzo dei Principi

E’ il più rappresentativo edificio rinascimentale della città, suggello architettonico dell’epoca d’oro della signoria dei da Correggio. Il palazzo, che venne costruito a partire dalla fine del XV secolo ed ultimato nel 1508, è espressione dell’influsso artistico e architettonico che Ferrara, grazie a Niccolò II da Correggio, detto Postumo, figlio di Beatrice d’Este, ebbe sulla corte di Correggio. Influenza architettonica che si manifesta nella costruzione del Palazzo, dove è chiaramente avvertibile l’influsso del grande architetto-urbanista Biagio Rossetti. Il Palazzo deve l’appellativo ‘dei Principi’ a Giovanni Siro da Correggio, Principe del Sacro Romano Impero e di Correggio. La sua prima padrona fu Francesca di Brandeburgo, rimasta vedova del conte Borso da Correggio, con la sua famiglia. L'edificio divenne di fatto la sede più prestigiosa del Casato, pur non avendo una precipua funzione residenziale. Con la fine della dinastia principesca a favore degli Estensi, il palazzo ospitò gli uffici pubblici per essere poi abbandonato e lasciato ridursi in stato di degrado. Agli inizi del XX secolo l'amministrazione comunale decise una prima opera di recupero portata avanti dal sindaco Guido Zucchini tra il 1925 ed il 1927, soltanto negli anni 1960 il palazzo fu riportato in condizioni di essere utilizzato. Dopo il restauro il palazzo divenne sede della biblioteca comunale, degli archivi storici, della fonoteca e videoteca. Buon ultimo il museo civico, aperto nel 1995 e chiuso l'anno successivo a seguito dei danni causati dal terremoto che colpì Correggio nell'autunno del 1996. Dopo ulteriori lavori di recupero, nel 2003 divenne sede della biblioteca "Giulio Einaudi" e degli archi storici. Successivamente vi è stato insediato il Museo "Il Correggio" di archeologia e arte. La facciata si presenta semplice e armoniosa, in cotto a vista con monofore e bifore centinate a rilievo e bella cornice sottotetto. Ha paraste angolari e cornice del primo piano marmoree. Al centro si apre un bellissimo portale, tra i  più significativi del rinascimento emiliano, con stipiti e architrave riccamente decorati a bassorilievo e un elegante balconcino soprastante. All’interno si apre il bel cortile d’onore, circondato da un alto porticato poggiante su colonne marmoree con stupendi capitelli. L’ala est del palazzo ha subito importanti modifiche nel XVIII e una totale ricostruzione nel XIX. Nel cortile sono poste due vere da pozzo: la prima (datata 1507) proveniente da Piazza Garibaldi, la seconda, di chiara matrice gotica, è originaria del Palazzo. Sotto il porticato fa bella mostra di sé un maestoso leone funerario (con relativa targa iscritta), frammento superstite di un importante sepolcro romano (rinvenuto nelle campagne correggesi all’inizio del ‘600) databile al I secolo d.C. Al piano terreno si trovano stanze con tracce di affreschi (Sala dei Putti, Sala Conferenze “Arrigo Recordati”, emeroteca e sala di lettura della biblioteca), ma le sale più interessanti sono situate al piano nobile, cui si accede per uno scalone e una grande porta con stipiti e architrave in marmo. In particolare va segnalata una sala che presenta un soffitto a grandi cassettoni con fregio affrescato sottostante (in cui si legga la data 1507) e un camino con bassorilievi del sec. XVI. Altri link suggeriti: http://www.museoilcorreggio.org/Sezione.jsp?idSezione=28, http://www.cittadarte.emilia-romagna.it/luoghi/reggio-emilia/palazzo-dei-principi-di-correggio, http://turismo.comune.re.it/it/correggio/scopri-il-territorio/arte-e-cultura/ville-dimore-teatri-storici/palazzo-dei-principi

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_dei_Principi, http://www.comune.correggio.re.it/vivi-correggio/edifici-e-ville-storiche/palazzo-dei-principi/

Foto: la prima è una cartolina della mia collezione, la seconda è di Museo Il Correggio su https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_dei_Principi#/media/File:Palazzo_dei_Principi.jpg  

martedì 27 dicembre 2016

Il castello di mercoledì 28 dicembre






CORREGGIO (RE) - Rocchetta

Certamente Correggio non nacque come municipio romano; mostra invece una chiara origine medievale legata alla dominazione longobarda. Il toponimo Corrigia appare per la prima volta in un documento del 946. Dal 1009 al 1635 si sviluppò la Signoria di Correggio. Il 16 maggio 1559 l'imperatore Ferdinando I d’Asburgo elevò Correggio al rango di Città conferendo, al contempo, il privilegio di battere moneta e di mantenere un Catalogo della nobiltà cittadina. Nel 1616, grazie al pagamento di una notevole cifra, Correggio fu eretta a Principato. Nel 1635 il principe Siro da Correggio venne accusato di battere moneta falsa e pertanto venne privato dei suoi territori, che finirono annessi, alcuni anni dopo (1641, confermata nel 1659), nel Ducato di Modena e Reggio. La Rocchetta (adibita prima a caserma dei Carabinieri e poi a carcere mandamentale), dopo i lavori di restauro è stata inserita nella rete internazionale degli Ostelli della Gioventù (A.I.G.). L’attuale configurazione della Rocchetta risale al 1887, quando la realizzazione della linea ferroviaria e della Stazione portò alla demolizione di buona parte dell’edificio originario (voluto, nel 1372, da Guido VII da Correggio): accantonato il progetto iniziale, che prevedeva l’accesso alla Stazione Ferroviaria da Corso Cavour attraverso la Rocchetta stessa mediante ampio portale, prevalse la soluzione più radicale di quasi completa demolizione. Con la realizzazione della facciata, di chiara matrice neoclassica per proporzioni e simmetrie, si volle restituire all’edificio dignità architettonica e funzionale rispettando sia la necessità di un collegamento del centro storico alla ferrovia, sia riprendendo lo stile dei palazzi che già si affacciavano su Corso Cavour. Inizialmente divenne sede della Caserma dei Reali Carabinieri; successivamente carcere mandamentale, con alloggiamento della guardia carceraria e custode; funzione svolta fino ai primi del Novecento. L’Ostello per la Gioventù – in occasione del Giubileo, la Legge n° 270 del 07/08/97 ha favorito gli interventi di recupero dell’edificio con destinazione a struttura ricettiva: un Ostello per la Gioventù. Con la concomitanza dell’evento Giubilare è stato possibile approntare un intervento globale di recupero dell’edificio e del relativo consolidamento antisismico, occorso per l’aggravarsi delle condizioni statiche in conseguenza del terremoto del 1996. Oltre a recuperare un edificio particolarmente significativo per la memoria storica correggese, si è trovato nella realizzazione di un Ostello – una struttura ricettiva a basso costo, – una destinazione conforme alle esigenze contemporanee, rispettosa della distribuzione architettonica-tipologica dell’edificio e non dissimile dagli usi di ricettività assolti durante i secoli. L’ostello dispone di venticinque posti letto, con stanze da tre e quattro posti letto, uno stanzone da otto posti letto e una stanza-famiglia, con annessi servizi. Al piano terra sono stati ricavati i servizi di reception e infermeria con annessi servizi; al piano ammezzato si trovano i bagni collettivi e le docce; mentre al primo piano si sono ricavati alloggi maggiormente riservati con bagno privato. Il bellissimo interrato, caratterizzato da ampi spazi con volte a botte interamente lasciati con murature a vista, ospita il Circolo Arci “La Galera”. L’ingresso all’Ostello avviene attraverso l’originario portale della facciata ottocentesca mentre per i restanti prospetti laterali con muri a vista, si è intervenuti mediante ripuliture e restauri strutturali, evidenziando le parti di murature medievali da quelle dell’ultimo massiccio intervento di fine Ottocento.


Il castello di martedì 27 dicembre






AVELLA (AV) – Castello Longobardo

Nel lungo periodo di dominazione, Avella meritò più volte la considerazione romana per la fedeltà mostrata in occasione della guerra di Pirro, delle guerre sociali (contro Irpini, Lucani, i Sanniti, i Pugliesi) e delle guerre di Spartaco. La cittadina di Avella non subì sorte diversa da quella che il destino assegnò all’Italia intera, destino che fu infame e malvagio se i Vandali, i Goti e i Greci la straziarono e la distrussero, ad eccezione del “formidabile” castello, i Longobardi se la contesero mentre i Saraceni la saccheggiarono devastandola totalmente e costringendo la popolazione a vivere tra i monti. La calma dell’intero circondario di Avella ritornò solo dopo svariati secoli, dominati da grandi incertezze e povertà, ossia allorquando, con l’avvento dei Normanni, i monti vicini, divenuti ormai ricovero sicuro dell’intera popolazione, si spopolarono e il ritorno degli avellani nelle loro antiche sedi dette origine alla Baronia di Avella che comprendeva anche gran parte dei territori dell’attuale Baiano e Cicciano. La scala feudale istituita dai Normanni al loro avvento in Italia era totalmente legata alla qualità militari, di forza e di coraggio dimostrate nelle spedizioni militari. La dinastia dei baroni avellani ebbe inizio con Arnaldo, nipote di Riccardo, conte di Avella e principe di Capua e si sviluppò, per pura discendenza di Casato, attraverso Rinaldo III, cavaliere di Carlo D’Angiò, e la famiglia Orsini e, per vendita, attraverso Filiberta di Chalou, principe di Orange, Girolamo Colonna, Caterina Saracino e i conti Spinelli che abbellirono Avella con vie ed edifici pubblici e riportarono all’antica gloria il Castello e il palazzo baronale che fu arricchito, tra l’altro, da un “magnifico boschetto”. La cittadina di Avella per circa 25 anni, dal 1578 al 1604, potè giovarsi della magnanimità del genovese, Ottavio Cutaneo, che, oltre a far rifiorire le arti, le scienze e l’agricoltura, ricostruì a proprie spese le case dei poveri e fece lastricare nuove strade. Il baronato di Avella continuò successivamente con l’avvento prima dei Doria di Genova, casato del più illustre Andrea, e poi dei Del Carretto i quali ressero il baronato fino alla sua venuta in disgrazia, agli inizi del XVIII secolo, quando, con la perdita di valore dei diritti baronali, furono aboliti i feudi e le giurisdizioni e i territori divennero di uso pubblico. Nel corso del lungo baronato, che durò dal 1705 (Arnaldo I, normanno) al 1806 (Giovanni Andrea Colonna Doria del Carretto), l’intero casale di Avella subì continui mutamenti nei suoi confini territoriali a causa delle donazioni che i baroni operavano a favore di loro fidi per motivi di diversa natura. La vita amministrativa e economica nel periodo baronale era organizzata sulla base di norme ben precise, composta di obblighi e tributi annui che i casati corrispondevano alla Baronia come compenso per i benefici goduti nella divisione delle rendite boschive feudali o derivanti dal taglio dei boschi. L’amministrazione dell’università di Avella era affidata a 40 decurioni, eletti ogni 5 anni, tra i quali, ai primi di settembre di ogni anno, i cittadini, nel Convento dei Frati Minori e alla presenza dei Sottointendente di Nola, eleggevano i 4 membri responsabili del governo della città ossia delle spese, delle amministrazioni cittadine, della vigilanza sul denaro pubblico. Il complesso monumentale del Castello di Avella, attestato sui rilievi collinari che bordano ad Est la pianura campana, occupa una collina dai fianchi scoscesi situata sulla destra del fiume Clanis; alle sue spalle si stagliano i monti di Avella, barriera naturale che separa il comprensorio avellano-baianese dalla Valle Caudina. Il sito gode di una posizione strategica di controllo del territorio circostante, a guardia di un itinerario naturale che attraverso il passo di Monteforte Irpino mette in comunicazione la pianura campana con la valle del Sabato e conduce verso la Puglia e la costa adriatica. La sommità della collina (m 320 s.l.m.) è occupata dalle strutture della rocca, dominata dalla mole di una torre cilindrica su base troncoconica saldata alle imponenti strutture del donjon. Due cinte murarie, sviluppandosi a diversa quota, cingono le pendici del colle e si ricongiungono sul lato settentrionale, alla base della rocca. La prima, datata ad epoca longobarda (Peduto 1984), ha una pianta ellittica e abbraccia una superficie di circa mq 10.000; del circuito si conservano dieci semitorri (una è inglobata alla base dell’angolo settentrionale del donjon) delle quali cinque a sezione troncoconica e quattro di forma troncopiramidale. La seconda cinta, a pianta poligonale, prevede una porta carraia nell’angolo sud-orientale e nove torri, tutte quadrangolari eccetto quella dell’angolo sud-occidentale della fortificazione, a pianta pentagonale; la superficie racchiusa all’interno del circuito è di circa mq. 21.000. Alcuni saggi esplorativi condotti nel 1987 in occasione di un intervento di restauro hanno fissato la datazione del suo impianto al periodo normanno (XI-XII secolo) ed evidenziato l’esistenza di interventi di ristrutturazione nel corso del XIII secolo (Iannelli 1989). Nell’area compresa tra le due cinte murarie, in forte pendio verso sud, sono visibili i resti di numerosi ambienti riferibili a strutture abitative; l’unico edificio conservato in elevato è una grande cisterna a pianta rettangolare, situata immediatamente all’interno della cinta muraria interna. Nonostante rappresenti dal punto di vista monumentale uno dei complessi medievali più rilevanti della Campania, solo in anni recenti il castello è stato oggetto di esplorazioni sistematiche grazie alla disponibilità di finanziamenti destinati alla realizzazione di un parco archeologico. Le indagini, condotte tra il 2000 e il 2001 dalla Soprintendenza peri Beni Archeologici delle province di Salerno, Avellino e Benevento, si sono concentrate sulla rocca allo scopo di definirne lo sviluppo planimetrico e di tracciare, su basi stratigrafiche, una prima periodizzazione delle sue fasi di occupazione. Come si afferma e conferma in un documento spagnolo, i leggendari costruttori del maniero furono due innamorati, venuti dalla Persia, per motivi amorosi, Cofrao e Bersaglia: “Narra la leggenda, che, nell’anno 300 dell’era volgare, un cavaliere percorse di volo quella pianura. Le zampe ferrate del suo cavallo, nero come l’ebano, sprigionavano fasci di scintille dalla terra. Le fanciulle avellane fissarono su di lui cupidi occhi; ma il suo cuore non ebbe un palpito per esse. Era bello e prestante, era figlio del re di Persia e si nomava Cofrao. E’ bella era la sua bersaglia, ma di umile condizione. Il suo occhio aveva il guardar dolce della gazzella; le sue chiome bionde le scendevano intorno al collo candido come neve; la sua voce era soave, come i concenti della lira. Fuggitivi dalla Persia, col loro schiavo preferito Eraclione, vagabondi per contrade diverse, trepidi nella gioia del presente, immemori del passato, immersi nella beatitudine d’un sogno d’oro, cercarono un nido per covare a primavera del loro amore, delle loro brezze, e lo trovarono su quella collina e vi fabbricarono quel castello, che risuonò sovente di celesti accordi. Là, su quel poggio, fra lo smagliante oleazzare dei fiori, fra il sorriso del cielo, fra il verde dei prati ed il canto degli uccelli, con le farfalle, fior alati dell’aria, con la mitezza limpida del cielo, con la voluttà dei profumi, complici silenziosi delle ombre, con la quieta serena della campagna, con la gioventù fervida degli anni, con la bellezza delle forme, intenti nell’infinita tenda cilestrina, nel palpito unisono de’ cuori a contare le stelle col numero dei baci, a narrarsi i sogni – fantasie curiose, piene di luce e di fate – a farsi sorprendere dal sole nel torpore dell’alba e nello spasimo degli abbracciamenti, si amarono di quell’amore, al quale non si sopravvive. La morte è compagna dell’amore; Bersaglia morì e Cofrao, per dimenticare quei luoghi, testimoni delle sue gioie passate e dei suoi presenti dolori, decise di far ritorno in Persia. Di notte, mentre scendeva dal Castello, udì, fra le ombre silenti, una fioca melodia, che giunse gli per gli orecchi dell’anima. Era una voce purissima e mesta di fanciulla, che accompagnava il canto con accordi tremuli d’un arpa, lievemente sfiorata da mano destra leggera. Cofrao dimenticò tutto e fece per avviarsi al luogo, dov’era la fanciulla che cantava; ma presto si avide ch’era impossibile scoprirlo. Il canto pareva ora subitamente ravvicinarsi, ora lentamente allontanarsi. Cofrao avrebbe giurato, che la voce venisse di sotterra; ma si accorgeva ch’era sopra di lui, in alto, nello spazio purissimo del cielo. Non intendeva le parole della canzone; ma sentiva, in quel momento, che quella musica parlava di lui, dei suoi dolori. Intimamente commosso e con le lacrime agli occhi, continuò a discendere; ma il cavallo, ad un tratto, s’impennò. Chi era quella larva, chi gli appariva dinanzi? “bersaglia, tu adorata fanciulla, tu dunque ritorni? La morte non ti rapì? Un cenno egli gli troncò la voce. Il lieve vapore, che aveva composto quella forma, si diradò; l’ombra svanì; solo una pezzuola bianca, intrisa di sangue, stava per terra. Il cavaliere la raccolse e vi lesse: – compagni in vita, saremo compagni anche in morte – . Cofrao ripigliò affannato il suo cammino, ma, ad un punto, il cavallo traboccò e giacque morto. Il cavaliere girò gli occhi e rimase attonito; non era più il medesimo luogo, la collina era sparita. Che erano quei sarcofagi? Ne stava uno, aperto soltanto, dal quale usciva un dolce lamento. Cofrao si appressò, gettò tremendo uno sguardo entro quel sarcofago e vi cadde tramortito. Quel sarcofago li chiude ora entrambi. Colla bocca, appoggiata a quella pezzuola, intrisa di sangue, Cofrao spirò. E per la colina s’ode ora una flebile metro di dolore. E il rosignuolo, che ora piange là, durante la notte, il sogno svanito dei loro dolci amori”. Altri link suggeriti per approfondire: https://avelladituttounpo.jimdo.com/monumenti-il-castello/, http://www.fondazioneavellacittadarte.it/storia-siti/siti-archeologici/3-il-castello-di-avella.html, http://historiemedievali.blogspot.it/2016/03/il-castello-di-avella.html


venerdì 23 dicembre 2016

Buone feste dal Castelliere !!






Nei prossimi giorni non so se il blog potrà essere aggiornato, voi - se volete - passate qui a controllare e....chissà che non ci siano nuovi castelli pubblicati.

Intanto auguro a tutti voi di trascorrere delle feste piacevoli e, magari, memorabili (in positivo ovviamente). Buon Natale e Felice 2017 a tutti !!

Valentino

Il castello di venerdì 23 dicembre






CASTEL MADAMA (RM) - Castello di Empiglione
(testo di Paolo Amoroso tratto da http://blog.aioe.org/index.php/empiglione/)

Empiglione è un centro abitato a case sparse, abbandonato, posto lungo la sponda destra dell’omonimo torrente e sito nel comune di Castel Madama ad una decina di km da Tivoli, in provincia di Roma. Conserva estesi ruderi del castello e di alcuni edifici privati, tutti in cattivo stato di conservazione. La valle del torrente Empiglione aveva molto da offrire alla colonizzazione umana. Il clima era salubre, non troppo freddo in inverno né torrido d’estate, il terreno fertile e pianeggiante nel fondovalle e versato per la coltivazione della vite e dell’ulivo lungo i fianchi morbidi delle colline, l’acqua abbondante in tutte le stagioni mentre le vicine città di Tivoli e di Roma, facilmente raggiungibili attraverso la Tiburtina, offrivano un ampio mercato per i prodotti agricoli ed artigianali del luogo. I primi a stabilirsi lungo il corso dell’Empiglione sembra siano stati gli Equi poi a partire dalla prima età del IV secolo A.C. sopraggiunsero i romani che colonizzarono la zona intensamente. Tuttavia, la città di Tivoli era abbastanza vicina da essere raggiungibile a piedi con poco sforzo mentre il livello di sicurezza nelle campagne era allora ancora sufficientemente elevato da consentire alla popolazione di vivere dispersa sul territorio. Per tutta l’epoca romana il luogo dove oggi sorge il borgo di Empiglione rimase un sobborgo rurale di Tivoli chiamato Massa Apollonia e debolmente popolato dove nella tarda antichità venne costruito un mulino sfruttando l’unico tratto del corso del torrente omonimo in cui il greto è stretto abbastanza da poter essere facilmente sbarrato. Intorno al mulino formò una piccola comunità rurale della quale nulla sappiamo. Probabilmente raso al suolo dagli arabi nel corso del IX secolo insieme con Tivoli, il borgo cambiò nome in Empiglione e venne rapidamente ripopolato tanto che risulta essere stato un fundus – terreno coltivato – nel 936, una massa nel 958, un casale – probabilmente una torre cinta da una palizzata – nel 967 ed infine un castellum nel 973. La nascita del primo nucleo della fortezza dipese probabilmente dall’endemico stato di guerra protrattosi per tutto il X secolo fra il Vescovo di Tivoli – che allora esercitava anche il potere laico sulla città – ed il monastero di Subiaco, che possedette Empiglione a partire dal 939 e fino al 1125, di cui rappresentava il territorio più vicino al nemico. L’insicurezza sembra abbia spinto gli abitanti dei dintorni, che prima vivevano dispersi sul territorio, ad agglutinarsi in un unico centro abitato sorto nei pressi del mulino già esistente oltretutto ubicato in una contrada ricca d’acqua e vicina ai campi coltivati. Malgrado gli innegabili vantaggi del luogo, il castello ed il borgo che lo circondava per contro erano anche difficili da difendere in caso di attacchi militari da parte dei vicini tiburtini perché adagiati lungo il fianco morbido e privo di difese naturali di una insignificante collinetta. Poiché l’edificazione di una cinta muraria ben fortificata era un’impresa assai costosa a quei tempi, costruire i centri abitati in luoghi difesi almeno parzialmente da ostacoli naturali insormontabili rispondeva ad un’esigenza innanzitutto economica perché limitando la porzione del perimetro della fortificazione effettivamente esposta all’attacco nemico, che era l’unica a dover essere davvero invalicabile, si riducevano i costi di costruzione della struttura. Allo stesso tempo, una fortificazione protetta da difese naturali impossibili da superare era più semplice da sorvegliare per chi la occupava poiché in caso di attacco era prevedibile la provenienza degli assalitori e questo rendeva difficile riuscire ad occuparla sfruttando la sorpresa. Poiché poi il numero di soldati necessari a respingere un assalto nemico dipendeva dall’ampiezza della porzione del suo perimetro oggetto dell’attacco, un castello protetto dalla natura richiedeva un minor numero di soldati per essere difeso perché l’azione ostile doveva per forza concentrarsi sulla sua sola parte raggiungibile dall’esterno. In un’epoca turbolenta in cui la sicurezza era un requisito indispensabile per qualunque centro abitato, questa sua caratteristica finì col favorire il vicino borgo di Castel Sant’Angelo – oggi Castel Madama – fondato intorno al 1030 sulla cima della collina soprastante il fosso dell’Empiglione in un luogo difeso per tre lati su quattro da un dirupo e perciò facile da difendere anche se lontano dai campi coltivati. Dopo essere conquistato e raso al suolo dai Tiburtini durante il pontificato di Onorio II probabilmente nel 1125, Empiglione rimase per il successivo secolo e mezzo un tenimentum agricolo dato in gestione alla famiglia Orsini ed assoggettato al comune di Tivoli. In un atto del 1275 Empiglione era descritto come un castellarium, termine che designava una struttura fortificata in stato di abbandono e per questo non utilizzabile come difesa militare, mentre all’inizio del secolo seguente è citato come un castellum in piena efficienza nuovamente abitato a partire dal 1279 e di proprietà della famiglia Orsini. Fra gli ultimi anni del XIII secolo ed i primi del XIV, il castello raggiunse la forma ancora attuale che è testimoniata da un atto del 1307. Il castello venne poi abbandonato probabilmente un secolo dopo, all’inizio del XV, poiché il generale progresso nel livello di sicurezza delle campagne e la vicinanza con Tivoli e Castel Madama lo rese inutile sul piano militare. Sopravvisse invece il piccolo borgo rurale sorto intorno al mulino e lungo il corso del torrente che, sebbene in parte abbandonato, si presenta ancora in discreto stato di conservazione. Il reperto più interessante presente ad Empiglione è senza dubbio il suo castello. Aveva pianta rettangolare e misurava circa settanta metri per cinquanta, dimensioni di tutto rispetto per i tempi che lo rendevano molto più vasto di Saccomuro, Vallebona o di Castiglione di Cottanello e circa doppio per superficie rispetto a Rocchettine ed a Stazzano che di contro si sono conservati in condizioni assai migliori. Era fornito di una singola porta, ancora visibile malgrado sia in cattivo stato di conservazione, lungo il suo lato nord occidentale, l’unico che si sia conservato, curiosamente priva di contrafforti ed affacciata sul lato delle mura opposto a quello parallelo al corso del torrente Empiglione e rivolta quindi verso il fianco della valle. Della fortificazione medievale, oggi in rovina, di proprietà privata ed accessibile solo scavalcando una recinzione, restano pochi ruderi utilizzati da un contadino come depositi agricoli ed oltretutto sottoposti in epoca recente ad un pesante intervento di restauro effettuato aggiungendo solette e rinforzi in cemento armato alla struttura in pietra originale. Del manufatto originario sono ancora chiaramente distinguibili il mastio e le tre torri a pianta rettangolare che si ergevano lungo il lato occidentale del suo perimetro e la porzione del muro di cinta compresa fra questi. Nulla si è conservato, invece, del lato orientale. Sicuramente costruito in più fasi, come facilmente provato dall’alternarsi nelle mura di strati costruiti con differenti tecniche murarie, nel suo nucleo più antico – comprendente almeno il mastio e forse la porzione inferiore delle mura di cinta – il castello dovrebbe risalire al X secolo. L’aspetto molto inconsueto è la tecnica di costruzione con cui è parzialmente realizzato che il Castello di Empiglione condivide con un piccolo numero di altre fortificazioni quali il Borghetto di Grottaferrata ed il Castello Savelli di Albano. Uno dei pochi brandelli sopravvissuti del muro perimetrale è infatti edificato con una muratura, detta alla sarcinese o sarcinesca, composta da blocchetti di pietra a forma di parallelepipedo regolare e di dimensioni grossomodo costanti legati fra loro da una minima quantità di malta. L’origine di questa inconsueta tecnica costruttiva è ancora al giorno d’oggi dubbia dopo essere stata ritenuta per secoli tipica degli edifici costruiti nel corso del X secolo e così chiamata perché importata in Italia dagli arabi, allora chiamati saraceni. Sebbene oggi si propenda per una datazione più tarda, in ogni caso non anteriore alla metà del XI secolo, si tratta comunque di una tecnica di uso raro tanto più in un luogo ricco di argilla, legname ed acqua che sono le tre materie prime necessarie per fabbricare i mattoni. Da rimarcare infine la presenza di una struttura ipogea sicuramente artificiale, di epoca e funzione ignota, posta al di sotto della porzione nord occidentale del castello ed in rovina, articolata in vari vani collegati da un disimpegno ed accessibile attraverso una porticina che si apre immediatamente al di sotto del piano delle mura. A valle del castello, lungo il corso del torrente, che in quel tratto corre parallelo alla via Empolitana, sono ancora ben visibili l’antico mulino, in larga parte ricostruito in epoca recente ed adibito a struttura ricettiva turistica, ed alcune fattorie in stato di abbandono, una delle quali anche di pregevole fattura. Sono riconoscibili due case coloniche, dirute ma in discreto stato di conservazione, ed una serie di depositi o stalle inaccessibili e cadenti.

Foto: entrambe prese da http://blog.aioe.org/index.php/empiglione/

giovedì 22 dicembre 2016

Il castello di giovedì 22 dicembre





SIRACUSA - Torre Milocca

La torre, che fa parte del sistema difensivo costituito dalla rete di torri di avvistamento a protezione del suolo Siciliano, è sottoposta a tutela con D. A. 6156 del 31/05/1999. Sorge a circa sette chilometri da Siracusa ed a poco meno di due chilometri dal porto grande ad est, e dall’omonima baia di Milocca ad ovest. La equidistanza dalle acque dei due opposti versanti, le conferisce un’evidente posizione strategica: isolata in una vasta pianura non segnata da alcun rilievo collinoso o da peculiarità topografiche, dalla sua sommità si dominava sia il territorio circostante sia le poco sicure vie del mare. La costruzione originaria (XV secolo), gravemente danneggiata dal sisma del 1693, fu ricostruita nel 1697. La ricostruzione conservò impianto e caratteristiche della torre preesistente. La destinazione difensiva della torre Milocca è evidenziata dalle pareti contraffortate, dalle feritoie, e dal ponte levatoio (oggi ponte fisso in legno). La sua architettura esterna è, oggi, immutata: la torre è formata da tre elevazioni, la prima delle quali, munita di contrafforti a scarpa, è caratterizzata da piccole aperture sguinciate a feritoia. L’impianto planimetrico è un semplice rettangolo. All’esterno l’edificio è caratterizzato da una rigida simmetria (finestre rettangolari, due per ciascuno dei piani, disposte sulla stessa verticale); la novità di maggior rilievo, nell’opera di ricostruzione, fu la realizzazione, alla quota del secondo livello, dei quattro grandi balconi d’angolo sostenuti da mensole. La porta, che all’altezza del primo livello rompe la simmetria dell’impianto, è il solo punto che consente la comunicazione tra interno ed esterno dell’edificio; era collegata alla scala esterna mediante ponte levatoio, ora sostituito da una passerella fissa in legno. Le campiture del paramento murario esterno sono finite ad intonaco; la pietra calcarea tagliata in conci squadrati caratterizza i cantonali ed i rifasci delle aperture. L’attico è definito da una teoria di merli limitati ai quattro angoli da elementi piramidali. La distribuzione originaria degli ambienti interni, al primo ed al secondo piano, è stata alterata ed adeguata alle attuali necessità d’uso; negli anni ’70 i solai del secondo interpiano e di copertura furono sostituiti con solai in latero cemento. Solo il piano terra conserva le caratteristiche distributive originarie: ambiente voltato a botte in conci di pietra calcarea e diviso in due da un setto in muratura di pietrame. Nell’angolo di sud ovest è ubicato il pozzo che , come in passato, garantisce il rifornimento idrico all’immobile. Successivamente la torre è divenuta centro di aggregazione di dimore rurali, e dopo il Sec. XVII ha assunte funzioni abitative in sostituzione di quelle difensive. Le costruzioni sorte intorno alla torre in epoche successive hanno modificato l’ambiente circostante. L’accesso attuale al complesso architettonico della torre Milocca avviene attraverso un arco in muratura che, insieme ad una serie di altre costruzioni (magazzini, palmenti, trappeti ed abitazioni) hanno trasformato lo spazio circostante la torre, in una corte variamente articolata. Qui trovate foto molto belle della torre: https://divisare.com/projects/98791-enrico-reale-consolidamento-e-risanamento-di-torre-milocca

Fonti: http://www.antoniorandazzo.it/castellietorrimedievali/torre-milocca.html, https://divisare.com/projects/98791-enrico-reale-consolidamento-e-risanamento-di-torre-milocca

Foto: è presa da http://www.antoniorandazzo.it/castellietorrimedievali/images/57-torre-milocca-facciata-nord.jpg

mercoledì 21 dicembre 2016

Il castello di mercoledì 21 dicembre







NOTO (SR) - Torre Messinella in località Castelluccio di Noto

Ad est del sito archeologico di Castelluccio, seguendo la S.P. 81 la strada costeggia un’area di rimboschimento della Forestale (che secondo alcune mappe molto probabilmente si troverebbe su di un cimitero abbandonato, appartenente al limitrofo feudo di Castelluccio) fino a quando sulla nostra destra (andando verso Rigolizia) vi è una sbarra facilmente scavalcabile che non è altro che il sentiero che conduce alla Cava Messinella. Qui vi è ubicata la Torre Messinella, posta in posizione panoramica sulla limitrofa cava iblea. Essa è di costruzione relativamente recente ( probabilmente, risale alla seconda metà dell'Ottocento) e si ispira alle torri medievali poichè si presenta merlata sulla sommità. Posta in una felice posizione panoramica, quella che fu una casina di caccia del Marchese Di Lorenzo di Castelluccio, è una costruzione a due piani con terrazza, formata da un’accesso arcuato e da finestre con balaustrini scolpiti ad arco cuspidato con timpano arcuato. L’interno di questa torretta ospita una piccola casa – vacanza (per informazioni basta cercare “Torrealta Noto” su Google (http://www.novasol.it/p/ISS477).

Fonti: http://sudestsicilia.altervista.org/noto-castelluccio-torre-messinella/, http://www.wwfgiarre.org/notizie/30-escursioni/escursioni-2015/353-castelluccio-di-noto.html, http://www.antoniorandazzo.it/sicilia/torre-messinella.html

Foto: entrambe di Roberto Capozio su http://www.antoniorandazzo.it/castellietorrimedievali/torre-messinella.html


martedì 20 dicembre 2016

Il castello di martedì 20 dicembre



FONDI (LT) - Castello delle Querce

E' un castello in rovina, situato fuori del centro cittadino di Fondi, in una zona pedemontana tra i monti Passignano e Valletonda nella località un tempo nota come Le querce di Cesare, in provincia di Latina. L’edificio nascerebbe, secondo le ipotesi formulate, in epoca medioevale nel XIV secolo per motivi militari, come fortino difensivo e di avvistamento per poi divenire residenza di campagna; la presenza di un impianto quadrangolare con torrette circolari negli angoli, e di strette e lunghe feritoie nella cortina muraria di queste ultime, sono elementi che senza dubbio connotano una costruzione fortilizia. Ciò che caratterizza il complesso è senza dubbio la conformazione planivolumetrica ad impianto quadrangolare con torri circolari negli angoli e l’aggiunta di un corpo di fabbrica rettangolare, la posizione rialzata rispetto a chi lo raggiunge percorrendo la strada che giunge dalla città, a guisa di un baluardo fortilizio, oltre alla struttura muraria completamente in pietra. Complessivamente l’edificio si presenta come la fusione di due corpi, uno quadrangolare con quattro torrette circolari sugli angoli e l’altro, a base rettangolare, che sembra innestarsi sulle due torri del prospetto nord-ovest del primo, andando a costituirne un prolungamento. Il castello occupa in pianta una superficie di circa 216 mq, e raggiunge un’altezza di gronda pari a 11,60 m; ad esso afferisce un terreno di 11.593 mq che si trova alle sue spalle, sui terrazzamenti creati lungo il pendio della montagna. Lo stato di abbandono in cui verte lo stabile ha fortemente compromesso la qualità dei materiali e la sicurezza statica, ciò ha portato, in alcuni casi, al crollo di porzioni anche considerevoli di solai e partizioni murarie interne. Qui si incontravano spesso la contessa Giulia Gonzaga con un suo amante, infatti si dice che Giulia scoprì per caso un passaggio segreto che dal castello baronale di Fondi portava fin su Monte Vago, dove c’era il convento. Da qui era possibile raggiungere il castello alle querce, detto anche alla ripa, dove appunto si incontravano Giulia ed il suo amante. Il castello delle Querce è attualmente di proprietà del Parco dei Monti Aurunci. Il progetto di recupero del Castello delle Querce di Fondi è stato inserito dalla Regione Lazio nell'elenco delle proposte approvate, ammesse a finanziamento ma non ancora finanziate. L'Ente Parco non ha dimenticato il Castello. Il suo recupero è dipeso dalla mancanza di fondi. Nel corso degli anni, infatti, sin dall'acquisizione della struttura da parte dell'Ente, la dirigenza ha presentato richiesta di finanziamento alla Regione Lazio più volte ma senza esito; prima alla Litorale Spa Azienda per lo sviluppo economico, turistico ed occupazionale del litorale laziale, poi alla Direzione Territorio ambiente e cooperazione tra i popoli ed in ultimo al dipartimento sociale Beni e attività culturali e sport. L'ultima richiesta di finanziamento alla Regione Lazio per il recupero del Castello delle Querce è stata inserita nell'ambito del Por Fesr 2007-2013 relativa ai Grandi Attrattori Culturali (Obiettivo competitività regionale e occupazione - Attuazione dell'Asse II Ambiente e prevenzione dei rischi Attività 5: "Interventi per la valorizzazione e promozione dei Gac). Il progetto prevede interventi di recupero da realizzare in diversi lotti, viste le dimensioni strutturali del Castello e la superficie stessa dell'area che la circonda che è pari a 3000 ettari. Per un finanziamento di un milione e 200 mila euro. La destinazione d'uso sarà finalizzata anche al recupero e conservazione delle tradizioni musicali locali. Altre foto interessanti sono presenti qui: http://www.latinafilmcommission.it/castello-delle-querce-fondi/

Fonti: https://castlesintheworld.wordpress.com/2015/01/23/castello-delle-querce/, testo della Dott.ssa Assuna Palazzo su http://www.telefree.it/news.php?op=view&id=82414,

Foto: la prima è presa da https://castlesintheworld.files.wordpress.com/2015/01/castello-delle-quercie.jpg, la seconda da https://castlesintheworld.files.wordpress.com/2015/01/castello-delle-quercie5.jpg

lunedì 19 dicembre 2016

Il castello di lunedì 19 dicembre






FONDI (LT) - Castello dei Montini in frazione Monte Rotondo

Di questo castello non ho trovato alcuna notizia storica, al momento. Sono riuscito a rintracciare solo delle immagini....

Foto: la prima è presa da http://www.fondani.it/foto-fondi/monumenti/castello-dei-montini, la seconda è una cartolina d'epoca, in vendita sul sito www.delcampe.net

sabato 17 dicembre 2016

Il castello di domenica 18 dicembre






CHIOGGIA (VE) – Torre veneziana delle Bebbe

La Torre delle Bebbe era un castello strategico per Venezia perché controllava le foci di un ramo del Brenta, il vecchio Medoacus Minor, che andava a sboccare nella Laguna di Venezia. Fu edificata per volere di Teodato (o Diodato), che era un magister militum a Heraclia. Era stato eletto console per procedere al trasferimento della sede della nascente Repubblica di Venezia a Malamocco. I veneziani lo gratificarono con il titolo di Doge, accompagnato da Ipato (console) e dagli storici è ricordato come il doge Teodato Ipato. Nel IX secolo, dopo il vuoto lasciato dal potere dei Longobardi, scesero schiere di soldati normanni in lotta con l'Impero d’Oriente e milizie ungheresi capitanate dal loro re Ladislao, che si affrontarono con i veneziani. Successivamente arrivarono i soldati di Ravenna e di Adria mettendo in pericolo Chioggia e Venezia, ma nel 1075 il doge Domenico Selvo, dopo aver aiutato Alessio, imperatore d'Oriente, sconfisse il conte di Giovinazzo, il normanno Amico. Al Doge Selvo, per aver riconquistato la Torre, venne conferita una particolare dignità di protosevasto. Per secoli la zona fu sempre presidiata dalle guarnigioni militari di Venezia e di Padova perché, oltre ad essere territorio di confine, c'erano le rispettive saline e perché presso la Torre passava la linea di transito della navigazione attraverso le foci di un ramo del Brenta. Nel 1199 i padovani avevano conquistato e distrutto il castello di Onara degli Ezzelini. Ezzelino il Monaco, dopo essere stato nominato podestà di Verona e Vicenza, decise, il 14 maggio 1214, di umiliare i signori di Padova utilizzando il pretesto dei giochi indetti tra i nobili: il cosiddetto "castello d'Amore". Lo storico padovano Cappelletti riporta che, in quella occasione, i signori di Treviso invitarono i nobili delle città venete di Belluno, Feltre, Venezia, Verona, Vicenza ai giochi indetti nel castello d'Amore , giochi che vedevano coinvolte e protagoniste le più belle donne della nobiltà. In quella occasione Ezzelino il Monaco e il suo figliastro Iacopo decisero di utilizzare i giochi per aprire le ostilità. Il gioco di quel giorno si trasformò in offesa, perché i giovani di Padova avevano calpestato il vessillo di San Marco; di fronte a questa provocazione i veneziani reagirono con le armi. Si susseguirono una serie di reciproche accuse e provocazioni, con la conseguenza che il territorio di Venezia fu invaso e saccheggiato da parte dei Trevigiani e Padovani. La battaglia finale si combatté presso la Torre di Bebbe. I veneziani, guidati dal doge Pietro Ziani, riuscirono a batterli ed imposero la loro pace il 21 aprile 1216. Nel 1256, dalla Torre delle Bebbe partirono i Confederati, come riporta la targa, ovvero i crociati (“crocesegnati”) del papa Alessandro V per liberare Padova da Ezzelino III da Romano, vicario di Federico II. Il Papa aveva ordinato al vescovo di Ravenna Filippo Fontanesi di convincere Venezia a partecipare alla Crociata; Venezia affidò il comando delle sue truppe a Marco Badoer. Nel 1375 Francesco Carrara, signore di Padova, iniziò la guerra con Venezia. Contemporaneamente attorno al presidio clodiense c'erano: gli ungheresi che si erano accampati a nord dei territori dell'Abbazia Sant’Ilario di Venezia, il rio dei Moranzani, i genovesi che avevano già occupato la città di Chioggia e i padovani che erano arrivati dal Bacchiglione. Anche questa battaglia, ricordata dalla targa, fu vinta nel 1380 dai veneziani, guidati da Vettor Pisani e Carlo Zen. Dopo questa data la zona della Torre delle Bebbe perse il suo ruolo strategico. Ora sono solo due riferimenti geografici storici, perché i Veneziani dal XVI secolo costruirono il corso artificiale del fiume per deviare il Brenta fuori della laguna. In terra clodiense i resti della Torre rappresentano sicuramente la più antica testimonianza della Repubblica Veneta e forse l'unico esempio di fortificazione medioevale esistente nella zona. Oggi, di quella Torre quadrangolare che doveva ergersi verso l'alto per una trentina di metri rimane ben poco: delle mura tre lati sono praticamente rasi al suolo, per cui spicca dal piano campagna solo l'impianto fondazionale, composto da grandi massi in pietra naturale posti a secco uno sull'altro. Altri link utili: http://www.archeosub.it/articoli/laguna/bebe.htm,

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Torre_delle_Bebbe, http://www.patrimonio.cittametropolitana.ve.it/immobile/torre-di-bebe-chioggia


venerdì 16 dicembre 2016

Il castello di sabato 17 dicembre






CHIOGGIA (VE) – Castello della Luppa nel forte San Felice

L’attuale Isola di San Felice originariamente era un isolotto emerso nell’area nord dell’antica Clodia Minor, dove si trovava una torre lignea che segnalava l’ingresso alla laguna. Dopo la Guerra di Chioggia (fu data alle fiamme durante l'assedio genovese del 1379 -1381) fu riconosciuto come fondamentale luogo strategico per garantire la sicurezza della laguna sud. La Serenissima volle una fortificazione in pietra e mattoni per difendere la bocca di porto violata precedentemente e per la salvaguardia delle saline, vere e proprie miniere a cielo aperto della laguna di Venezia. Venne così costruito su progetto di Francesco Marangoni, tra il ‘400 e il ‘500, il Castello della Luppa ( o Lova) il cui nome: Luppa ("illuves": inondazioni, alluvioni) e Lova, (lozza, melma, fango) deriva dalla tipica conformazioni barenosa sulla quale il castello era stato costruito. Le mura vennero costruite molto più tardi, quindi il castello era inondato periodicamente durante le maree e le violente mareggiate, ecco perchè il suo basamento è così possente ed è stato costruito in pietra, per non far risalire l'acqua salata ai livelli superiori. Grazie a successive riedificazioni, che iniziarono subito dopo il termine della Guerra di Chioggia (nel 1384) e si protrassero fin alla caduta della Repubblica Veneziana (1797), si giunse all’attuale struttura dell’Isola di S. Felice che, vista dall’alto, assomiglia ad una stella a cinque punte sul modello del castello di Famagosta di Cipro e di altre fortificazioni veneziane. Questa struttura permette un controllo a 360° sia sulla laguna che sul mare e si è dimostrata un valido ostacolo alle mareggiate che continuavano ad erodere l’isola dal mare e dalla laguna. Molto interessante dal punto di vista architettonico, è ancora visibile il portale in pietra d’Istria progettato da A. Tirali agli inizi del ‘700 e i resti delle fortificazioni militari, ma anche dal punto di vista naturalistico. Attualmente non è visitabile e se ne attende una riqualificazione d’uso che tenga conto e ne valorizzi sia gli aspetti naturalistici che paesaggistici, dopo  il trasloco della marina militare che ha occupato l’isola negli ultimi due secoli. Una passeggiata o un giro in bicicletta consente di ammirare paesaggi e scorci assolutamente unici e uno skyline della città di grande effetto, soprattutto al tramonto. Per la storia più approfondita del Forte San Felice suggerisco questo sito: http://www.comitatofortesanfelice.it/02%20Storia%20Forte%20San%20Felice/storiafortesanfelice.htm



Il castello di venerdì 16 dicembre





SANT'ALBANO STURA (CN) - Palazzo Vallauri

Le prime fonti scritte individuano Sant'Albano come appartenente al comitato di Bredulo «tra Tanaro e Stura»; fra il 901 e il 1236, furono i vescovi di Asti a disporne come signoria spirituale e temporale ed essi sono confermati, da un documento del nel 1041, nel feudo di Sant'Albano (insieme con Carrù e Bene), nonché dalle bolle papali del 1153-54 (papa Eugenio III e di papa Anastasio IV). Lo scarso potere esercitato del governo centrale stimolò conflitti, negli anni 1236-50, tra coalizioni comunali varie, fra cui Alessandria, Mondovì, Cuneo, Busca e Savigliano contro i vescovi di Asti. Furono gli, allora, conti di Savoia a portare pace, con una tregua, mediata da Tommaso II, riconfermando però gli ampi poteri del vescovado sul territorio di Sant'Albano. Nel 1251 e 1396 furono i marchesi di Monferrato ad occupare quei territori brevemente e nel 1387 e 1399 i Savoia ma nessuno intervenne seriamente a modificare l'assetto giurisdizionale e amministrativo di Sant'Albano. All'inizio del Trecento fu sotto il controllo di Pietrino Malabaila che, appoggiato da Amedeo d'Acaia, occupò dopo vari tentativi anche il castello. Solo nel 1402, dopo una guerra tra i Savoia e i marchesi di Monferrato, si ebbe il passaggio di Sant'Albano ai Savoia ma con la clausola di divieto di nominare ufficiali preposti all'amministrazione locale, in modo da porre le premesse per incorporazione definitiva del territorio entro il nascente Stato sabaudo, avvenuta formalmente nel 1409. Nel 1412 Sant'Albano fu infeudata, a sua volta con amplissimi poteri, a una famiglia di cavalieri di Savigliano, i Beggiamo, fedelissimi del principe Amedeo d'Acaia, che acquistarono in tal modo il titolo di conti. Sotto i Beggiamo si ebbe la formazione del territorio comunale, derivante dalla divisione tra Sant'Albano e Trinità a partire dai decenni finali del secolo XVI, con un lungo periodo di appartenenza alla provincia di Fossano. Durante le guerre tra il Piemonte, alleato con l'Austria, e la Francia, il castello venne conquistato dalle truppe francesi e distrutto dall'esercito imperiale. Il feudo Beggiamo durò fino al 1789 poi passò ai Fauzone (1741-1789), durante la caduta dell'antico regime piemontese in favore di quello francese (Editto 1749 con passaggio finale nel 1798), ed infine ai Barel (1789-1851). Il Palazzo Vallauri nacque probabilmente come un “castrum” o castello distrutto nel corso delle guerre franco – imperiali, note come Guerre Italiane. Di impianto cinquecentesco, subì rimaneggiamenti nei secoli successivi. Il Palazzo fu proprietà della famiglia Beggiami fino al 1700, poi passò ai conti Barel. Nella cappella si segnalano, ancora coperti da scialbo, numerosi affreschi di un pittore attivo nel '400 in diverse località cuneesi, chiamato Maestro di Sant'Albano Stura. Nel palazzo risiedette in diversi momenti della sua vita Giancarlo Vallauri (Roma, 1882 - Torino 1957) ingegnere, matematico, ammiraglio, docente universitario e rettore del Politecnico di Torino. Pose le premesse per la nascita della prima stazione radio italiana e dell'Istituto Elettrotecnico Galileo Ferraris. Fu anche presidente dell'Eiar, del gruppo Sip, del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Sant'Albano_Stura, http://www.visitterredeisavoia.it/it/guida/?IDR=1702, http://www.italiapedia.it/comune-di-santalbano-stura_Storia-004-211

Foto: è di micione su http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/135343

giovedì 15 dicembre 2016

Il castello di giovedì 15 dicembre






CINISI (PA) – Torre Pozzillo

La storia di Cinisi affonda le sue radici nel 1382 quando il giudice Fazio ne diede in concessione ai monaci benedettini di San Martino delle Scale il territorio. Il toponimo Cìnisi deriva dall'arabo cins, da cui kinisia che significa «territorio appartenente alla Chiesa». Grazie al paziente ed attento lavoro dei monaci il paese iniziò il suo sviluppo, trasformandosi da piccolo feudo in un agglomerato sempre più popolato. La corte benedettina, insieme alle torri di avvistamento che facevano parte del sistema di avviso delle Torri costiere della Sicilia, costruite su indicazione dell'architetto fiorentino Camillo Camilliani (artefice anche della Fontana Pretoria a Palermo), Torre Pozzillo, Torre Mulinazzo e la Torre della Tonnara dell’Ursa sono le costruzioni più antiche e ricche di storia. La torre Pozzillo si trova nella località di "Puzziddu" proprio allo svincolo dell'autostrada per l'Aeroporto Falcone e Borsellino di Punta Raisi, ricadendo nel territorio comunale di Cinisi. Fu costruita a partire dalla prima metà del 1600, in quanto non risulta rilevata nel 1578 dall'architetto reale Tiburzio Spannocchi nel corso della sua ricognizione. Anche al momento della ricognizione di Camillo Camilliani nel 1584 non risultava essere ancora costruita, nonostante egli avesse riscontrato che nella cala antistante potevano nascondersi: “ci possono stare 25 galere”. Nel 1625 la torre non era ancora completata, anche se dai registri della Deputazione del Regno di Sicilia già venivano indicati i relativi guardiani e “torrari”. Sempre dai registri della Deputazione del Regno di Sicilia, nel 1691 si apprende che era stata affidata al Principe di Carini e che la guarnigione era composta da tre uomini in tutto, compreso l'artigliere. Dal 1714 al 1717 sempre dai detti registri risulta che l'armamento consisteva in: 1 cannone di bronzo con affusto su ruote; 2 spingarde; 6 archibugi; 1 colubrina di bronzo (detta “masculo o mascolo” ); 5 alabarde; 28 palle di cannone. Nel 1811 è citata in quanto la sua guarnigione fu arrestata per viltà di fronte al nemico non essendo intervenuta in soccorso di un naviglio americano attaccata dai pirati. La torre è citata nel 1823 nella cartografia ufficiale dell'esercito borbonico, ma con il nome di “torre nuova”, nel 1867 è ricompresa nell'elenco delle opere militari da dismettersi. È proprietà del Demanio di Stato, ed è facilmente visitabile in quanto di libero accesso. Attualmente non ha alcun uso e si presenta in discrete condizioni dopo i restauri effettuati a cominciare dal 1970. In qualche modo riprende lo stile camillianeo, oggi attraverso un varco effettuato a piano terra in corrispondenza di quella che era la cisterna si accede al primo piano composto da tre ambienti rettangolari di cui il più ampio è quello prospiciente la terra di circa 8 metri sul lato maggiore. La volta è come usuale a botte ed alta circa 5 metri. Sulla parete a destra si trova un camino e sulla parete a sinistra un armadio a muro. Nel muro centrale si trova il pozzetto che permetteva di attingere l'acqua dalla sottostante cisterna. Per raggiungere il tetto esiste una scala in pietra formata da due rampe incassata nel muro esterno di sud est. Il parapetto della terrazza fu ripristinato nel corso dei restauri del secolo scorso.