lunedì 30 giugno 2014

Il castello di lunedì 30 giugno





VINCHIATURO (CB) - Palazzo Baronale Jacampo

Originariamente chiamato Ruffirio, Vinchiaturo era un antico borgo arroccato su quella che oggi è detta l’altura di Monteverde, quasi inaccessibile a causa dell’asprezza del territorio. Dopo la sconfitta sannita, furono le truppe romane ad ottenere il controllo del borgo, che prese appunto il nome attuale, ossia Carcere con Catene. Il nome deriva dal fatto che in questa città trovarono la libertà i sediziosi cittadini sanniti cacciati dai loro territori conquistati. Da questo momento il paese si fossilizzò. Nel secolo XI, nel periodo Longobardo, Ugo di Molisio, Conte di Boiano, donò alla Cattedrale della sua città molti feudi tra cui quello di San Pietro presso Vinchiaturo. Vinchiaturo era dunque terra di pertinenza dei Conti del Molise: ed in questa condizione si tenne durante i periodi normanno e svevo fino al 1449. In quegli anni il paese e le sue terre furono assoggettate alla signoria dei fratelli Sanfromonte, giunti dalla Francia nella nostra nazione, alcuni secoli prima, al seguito di Carlo d'Angiò, per volontà di Alfonso I di Aragona. Vi fu allora, una sincera amicizia tra Antonello, uno dei fratelli, e Cola di Manforte, Conte di Campobasso, col quale caldeggiò l'ascesa al trono di Napoli di Giovanni d'Angiò, che fu però sconfitto nella battaglia di Troia del 1462. Fu a seguito del devastante terremoto che colpì la zona nel 1456, che il paese attuale iniziò a delinearsi. Pastori e contadini che abitavano le zone montane si spostarono a valle e ricostruirono qui le loro abitazioni. Fu così che Vinchiaturo, nel 1467, fu dato in feudo ad un certo Matteo Trossa cui successero nel 1550, i Senescallo di Capua. Un membro di tale famiglia, Camillo se ne disfece per la somma di 5200 ducati. L'acquirente fu Federico Longo, esponente di una famiglia venuta nel Reame con i Normanni, che ebbe conferito il titolo di Marchese nel 1626 e che detenne il feudo fino all'eversione della feudalità. È al marchese Federico Longo che si deve la costruzione del palazzo marchesale, intorno al quale si sviluppò il paese, e del Convento di Santa Lucia, dimora dei Frati Minori Osservanti. Nel Dizionario Geografico-Ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani, Bibliotecario di S.M. Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, datato 1805 si legge: "Vinchiaturo - Terra in Contado di Molise, compresa nella Diocesi di Boiano, distante da Campobasso miglia 5. Si crede da taluni che fosse sorta dalla distruzione di altri villaggi, ch'erano un tempo nelle sue vicinanze, come io credo di essersi piuttosto accresciuto di popolazione, poiché dall'essersi ritrovati nel suo territorio molte antiche iscrizioni, monete, corniole, ed altre cose, fa credere anzi che fosse popolato il luogo prima dei suddetti villaggi. Vi si vedono alcune torri, opera dei mezzitempi, e niente altro, che indicasse poi remota antichità"». Nella parte più alta del centro abitato, accanto alla maestosa Chiesa della Santa Croce, sorge il Palazzo Marchesale di Vinchiaturo, detto anche Palazzo Jacampo. L’edificio, di grande pregio storico, è costituito da due corpi contigui ed è risalente ad un periodo antecedente al 1550 anno in cui passò nelle mani del marchese Federico Longo di Napoli che lo acquisì da Camillo Siniscallo (o Senescallo) di Capua. Nel 1805, anno in cui un disastroso terremoto interessò anche Vinchiaturo, l’ultimo discendente dei Longo lo cedette alla famiglia Jacampo che vi dimorò fin quasi al termine del XX secolo. Degni di nota sono i soffitti delle sale principali, finemente decorati nel 1898, dal maestro Abele Valerio. Nel 2010 il palazzo è stato acquistato dalla famiglia Perrella di Vinchiaturo che ha intrapreso una meticolosa opera di ristrutturazione e restauro dell’intero edificio.
Fonti: http://www.borghiautenticiditalia.it/bai/comune-di-vinchiaturo-cb/, http://www.prolocovinchiaturo.it/p/monumenti.html, http://www.comune.vinchiaturo.cb.it/cultura
Foto: da http://stefanovannozzi.files.wordpress.com/2013/11/vinchiaturo-casa-jacampo-famiglia-iacampo-molise-beni-culturali-archivio.jpg e da

sabato 28 giugno 2014

Il castello di domenica 29 giugno






CONEGLIANO VENETO (TV) – Castello

Situato sulla sommità del Colle di Giano, in luogo strategico da cui domina Conegliano e il territorio circostante, è ormai certo che la sua costruzione corrisponde anche alla fondazione della città, oggi la più popolosa della provincia di Treviso, dopo il capoluogo. Intorno al 1100 fu il potente vescovo di Belluno ad entrare in possesso del castello e del primo nucleo urbano cittadino, oltre che a una fitta serie di fortificazioni sparse nei dintorni, di cui oggi non rimangono che rare tracce. Della struttura originaria e della sua evoluzione è possibile fare delle ricostruzioni solo sulla base di testimonianze pittoriche (un'idea della complessità della struttura del castello e delle sue fortificazioni nella seconda metà del XV secolo, la si può avere a partire da alcuni sfondi di opere di Giovan Battista Cima: segnatamente la Madonna con il Bambino della National Gallery di Londra, sulla destra della quale è verosimile una rappresentazione del castello da est, dove si distinguerebbero anche il vecchio duomo di san Leonardo e la torre oggi superstite; la stessa prospettiva, ancor più chiara, si ha nella Sant'Elena della National Gallery di Washington: in quest'ultima opera si vede anche la cinta muraria orientale, oggi andata quasi completamente perduta). Conegliano, fin dal XII secolo, seguì le sorti del comune di Treviso passando dagli Ezzelini agli Scaligeri, che la munirono di nuove fortificazioni, fino alla Repubblica di Venezia a cui Treviso passò nel 1337, e la breve parentesi dei Carraresi (1384-1388). In tutto questo periodo fu innalzato il castello e potenziata la cinta muraria a difesa del borgo. Il castello, eretto sulla preesistente torre Bremba, fortificazione romana semicircolare tuttora visibile nelle sue vestigia dal giardino di Villa Zacchi, era inizialmente suddiviso in due parti. La più importante era Castelvecchio, corrispondente all'attuale zona del giardino; l'altra era Coderta, dove oggi sorge Casa Dal Vera. La sede di Castelvecchio era considerata quella più importante perché costituiva la sede del presidio militare e del podestà. Al suo interno sorgevano quattro torri, denominate Saracena, di Barbacane, delle Carceri e di Soccorso. Di queste quattro edificazioni oggi sono rimaste soltanto la Torre Campanaria, al cui interno trova spazio il Museo Civico, e la Torre Saracena, trasformata in ristorante. Il centro storico di Conegliano è interamente concentrato lungo Contrada Granda, corrispondente a via XX Settembre, posto ai piedi della collina su cui si erge il castello. Lungo la via sono apprezzabili alcuni palazzi storici, tra cui spiccano i due palazzi Montalbàn. La torre che oggi identifica il castello sulla sommità del colle è detta ”della Campana” perché accoglieva la campana magna che chiamava a raccolta la popolazione e segnalava l'inizio del Consiglio cittadino. La struttura è frutto di una serie di ristrutturazioni e ricostruzioni. Della originaria fondazione scaligera (mastio costruito per difendere la corte di guardia interna) restano in basso le profonde feritoie strombate, mentre le piccole finestre ad arco risalgono alla ristrutturazione del 1467; la parte terminale, cella campanaria e posto di vedetta, ricostruita dopo il crollo del 1491, venne sopraelevata all'altezza attuale nel 1847-55 con l'antistorico coronamento di merli ghibellini. Come già detto, il castello ospita il Museo civico di Conegliano, nel quale esistono diverse sezioni, divise per piano: la pinacoteca del pian terreno, l'ambiente di dimensioni maggiori, custodisce opere pittoriche di grande valore, come testimoniano i nomi di Palma il Giovane e del Pordenone; ai piani superiori vi sono reperti romani ritrovati nell'area coneglianese e altri oggetti di interesse storico; l'ultimo piano della torre è dedicato a personalità legate a Conegliano. Esiste all'interno un plastico, eseguito dal trevigiano Ennio Tiveron, in scala 1/72 del castello al tempo della Serenissima. Alla fine della visita si può godere del panorama della città e di tutta l'area circostante: la pianura veneta fino alla laguna di Venezia, buona parte della pianura friulana, i colli morenici del trevigiano e le Prealpi. Ecco un video del castello trovato sul web (di Gian Pietro): http://www.youtube.com/watch?v=lAceEMeD7r0

Fonti: http://it.wikipedia.org, scheda di Stefano Favero su http://www.mondimedievali.net/castelli/Veneto/treviso/conegliano.htm, http://www.marcadoc.it/musei/Il-Museo-Civico-del-Castello-di-Conegliano.htm, http://www.artestoria.org/mostre/storia%20di%20conegliano/storia%20di%20conegliano.html, http://www.coneglianoincima.it/conegliano-storia.html

Foto: entrambe sono cartoline della mia collezione

Il castello di sabato 28 giugno

 

 
SAN MARTINO VALLE CAUDINA (AV) - Castello Pignatelli-della Leonessa
 
di Mimmo Ciurlia
 
Fu edificato su di un colle di particolare importanza strategica, in epoca longobarda, probabilmente nella prima metà del IX secolo, vista l'esistenza di un documento risalente all'anno 837 in cui si accenna alla presenza in San Martino di un fortilizio e di un monastero. Nel 1347 Caterina de Baucio (del Balzo) vendette il Castello a Giovanni Cantelmo (Giovanni della Leonessa). Il cognome fu man mano trasformato da della Lagonière (la famiglia venne in Italia al seguito di Carlo d'Angiò) a della Lagonessa e infine in della Leonessa. La discendenza della famiglia della Leonessa continuò fino al 1797 con Giuseppe Maria, Principe di Sepino e duca di San Martino. Estinto il ramo maschile all'inizio del XIX secolo, il titolo passò per filiazione femminile ai Ruffo e con Carolina Ruffo ai Pignatelli di Monteroduni, Alfonso Pignatelli della Leonessa (1825-1929). Si tratta dello stesso titolo conservato fino ad oggi dal Duca Giovanni Pignatelli della Leonessa attuale proprietario dell'imponente castello. Ristrutturato più volte durante il periodo di dominazione normanno-sveva, l'edificio conserva ancora oggi l'originaria fisionomia di fortezza medievale. Sono evidenti gran parte delle opere difensive quali le mura merlate, le torrette di guardia ed i camminamenti; ed ancora sulla seconda porta il ballatoio coperto e protetto sul davanti per il lancio di pietre e dardi, sulla terza vuoto per la saracinesca. Si conservano a tutt'oggi la cisterna per la raccolta dell'acqua piovana, le prigioni, le garitte e l'oratorio interno. Interessante è la costruzione del muro esterno che raggiunge i cinque metri di spessore. Abbandonato nell'800, ridotto quasi a un rudere con la demolizione nel 1908 del piano superiore del "Mastio", nonché dell'ala sud per "pericolo incombente", è stato restaurato e reso di nuovo abitabile dagli attuali proprietari. Il castello, situato ad una quota di circa 400m, è raggiungibile da una ripida stradina che raggiunge la prima porta. Una strada lastricata in pietre conduce al secondo ingresso del complesso fortificato, costituito da un portale realizzato in blocchi lapidei con sistema archivoltato. Attraverso il portale si giunge in un suggestivo cortile d'armi. Sulla destra è invece l'entrata della cappella gentilizia riconsacrata il 18 ottobre 1706 dal cardinale Orsini (futuro papa Benedetto XIII). La costruzione ha pianta quasi rettangolare e mostra nelle pareti esterne un lieve basamento scarpato. A pochi metri dalla cappella, un breve androne conduce, attraverso una tipica scala a gradoni in pietra atti al percorrimento a cavallo, al cortile centrale della dimora Pignatelli, a pianta quadrilatera, dominato da un'ampia scala esterna in pietra a doppia rampa, da cui si raggiungono le stanze residenziali del piano superiore tuttora abitate e provviste di camini. Sul lato Nord-Est del cortile si affacciano gli ambienti del "palazzo" a due piani interni. Al piano superiore troviamo il salone più grande del castello con pavimentazione lignea e con soffitto a volte ogivali e a crociera. La grande sala è ricca di decorazioni e affreschi parietali dei secoli XVII-XVIII raffiguranti scene relative ad episodi storici rilevanti per la casata della Leonessa. Sulla porta orientale sono rappresentati Carlo III di Durazzo ed il capitano Carlo della Leonessa; sulla parete Ovest re Carlo d'Angiò e Guglielmo della Marra e sulla parete Nord il maresciallo del regno Giovanni della Leonessa e sulla parete sud il re Alfonso d'Aragona con Giacomo della Leonessa. Le volte sono invece decorate da affreschi con fregi, armi d'epoca, stendardi e motivi fitoformi. Detto salone comunica con un'interessante sala cassettonata, attualmente sala da pranzo, la cui copertura rivela negli angoli l'antica struttura muraria a crociera. Il ribassamento delle antiche volte, effettuato nel 700, serviva a rendere più abitabili gli ambienti e a raddoppiare gli spazi. Attigua al cortile è infine la torre-mastio dell'antica fortezza, in parte demolita nella seconda metà del secolo scorso. La torre, a pianta quadrata, è a tre piani interni sovrapposti. Sotto il livello del primo piano si apre un ambiente, a cui si accede attraverso una porta lignea con grata in ferro, privo di finestre ed adibito a prigione. Si racconta che un tempo la giovane e bella duchessa che vi abitava trascorresse nella tristezza le sue giornate per il fatto che al di qua delle mura non c'era che terra arida e brulla, pressoché una pietraia, dove non attecchiva una pianta né un fiore. Fu così che le donne del paese per consolarla e farle tornare il sorriso trasportarono per giorni e giorni sulla loro testa grandi gerle di terra fino a riempire la pietraia che divenne così un meraviglioso giardino dove ancor oggi crescono fiori, piante ed alberi da frutta.
Fonti:
 
Foto: da http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/5266967.jpg e una cartolina della mia collezione 

venerdì 27 giugno 2014

Il castello di venerdì 27 giugno




TODI (PG) - Torre in località Collevalenza

Le origini del borgo sono incerte. Il nome di Collevalenza (o Colvalenza) deriverebbe dal tempio dedicato a Giunone Valentia, che si ergeva al posto dell’attuale castello. Fedele ai ghibellini della famiglia Chiaravalle, l'antico maniero - che comprende la torre di avvistamento del 1200 - fu teatro di numerose dispute e rabbiosi assalti dalle opposte fazioni guelfa e ghibellina di Todi; il castello stesso dal 1272 fu più volte attaccato, espugnato, raso al suolo e per secoli fu terreno di discordia delle contrarie parti. Nel 1322 fu conquistato dai guelfi guidati dal cavaliere romano Savelli, che pochi anni dopo fu fatto decapitare dal papa. Nel 1377 la popolazione fu pesantemente oppressa e il castello in gran parte distrutto dal guelfo Catalano degli Atti. Le dispute proseguirono fino al 1500 circa. Quando non funestata dalle discordie, Collevalenza ed il suo castello erano ritenuti uno dei migliori luoghi di villeggiatura di tutto il contado. Nelle dirette vicinanze si trovano ancora oggi i resti della Via Flaminia di epoca Romana e la grande Selva di Pugliano, vero paradiso per i numerosi “uccellatori” di colombi migratori. Nel borgo di Collevalenza, Muzio Attendolo Sforza nel 1409 volle celebrare splendide nozze con Antonia Salimbeni, vedova di Francesco Casale, signore di Cortona e di Chiusi. Nel 1424 fu ricostruito e oggi si possono ancora ammirare i torrioni quattrocenteschi e le mura in stile gotico con bifore affacciate su Todi. La torre di avvistamento dell'antico castello di Collevalenza, borgo medievale sito a pochi chilometri da Todi, è oggi parte dell'affascinante residenza d’epoca Torre Sangiovanni B&B e Ristorante. La struttura è a 200 metri dal Santuario dell'Amore Misericordioso di Collevalenza, fondato da Madre Speranza Alhama di Gesù, la quale nel 1951 aveva fondato proprio all’interno del castello la prima comunità delle Ancelle del Misericordioso.
Fonti: http://www.torre-sangiovanni.it/it/la-torre.html, http://it.wikipedia.org, http://www.bedandbreakfastanticoborgo.it/bed-and-breakfast-collevalenza/

Foto: da www.bedandbreakfast.eu e del mio amico Claudio Vagaggini nel gruppo Facebook https://www.facebook.com/pages/CASTELLI-ROCCHE-FORTEZZE-in-Italia/308856780344?fref=photo

giovedì 26 giugno 2014

Il castello di giovedì 26 giugno





CHIERI (TO) - Castelguelfo in località Pessione

É una delle fortificazioni che si incontravano nel raggio di cinque chilometri attorno a Chieri, nei pressi delle strade principali. Erano generalmente torri di rifugio per i soldati che si ritiravano dopo qualche colpo di mano e posti di raduno per gli eserciti; più tardi divennero abitazioni signorili. Castelguelfo è una testimonianza medievale, fortificato prima dell'anno 1000, appartenne agli Acaja, ai Romagnano, ai Provana e fu ristrutturato dai Gautieri nel XVIII secolo per adattarlo a residenza. Dopo il 1700 il castello fu abitato anche dai Conti Baudi di Vesme. Si presenta come un massiccio parallelepipedo in laterizio, dominato dalla torre quadrata d'angolo. Oggi è una villa privata.

Fonti: dal libro "Castelli in Piemonte" di Rosella Seren Rosso, http://it.wikipedia.org, http://www.chieri.info/contents/chieri-castelguelfo.php

Foto: di VIG su http://rete.comuni-italiani.it

mercoledì 25 giugno 2014

Il castello di mercoledì 25 giugno






BUGNARA (AQ) – Castello dei Di Sangro

Le prime notizie documentate sono rilevabili dal VI secolo anche se alcuni ritrovamenti denotano che il paese sia stato abitato da molto prima. Nel 1000 venne costruita la chiesa della Madonna della Neve. Nel 1079 il borgo risulta feudo di Simone di Sangro. Il feudo rimase a questa famiglia fino all'estinzione del casato nel 1759 con Vittoria Mariconda di Sangro. Nell'XI secolo si ebbe la costruzione del Palazzo Ducale per mezzo della medesima famiglia. Il paese si presenta con la tipica forma a triangolo caratteristica del Medioevo, con le case di pietra rinserrate l’una all’altra quasi a volersi dare reciproca protezione ed i vicoli stretti e ripidi che, salendo verso l’alto, conducono al vertice della figura geometrica da cui domina, massiccio ed imponente, il Palazzo Ducale. Sempre i di Sangro ricostruirono la chiesa della Madonna della Neve nel 1361. I di Sangro si espansero nei borghi limitrofi Anversa, Frattura, Chiarano, ma vennero privati di altri. Nel 1442 venne istituita la Regia Dogana della Mena delle Pecore di Foggia che portò a Bugnara lauti introiti visto che dipendeva dal pascolo. Nel 1706, nel 1933 e nel 1984 Bugnara fu interessata da gravi terremoti, in particolare il terzo rese inagibili le chiese del paese per parecchio tempo. Il territorio di Bugnara dista circa 65 km in linea d'aria dall'epicentro del sisma del 6 aprile 2009. Non per questo, il centro storico del paese è stato risparmiato da danni e lesioni gravi. Infatti alle 3.32 di quella notte, a Bugnara si sono registrati interi crolli di abitazioni secolari (ovviamente disabitate) oltre al crollo di 500 m² di solaio del Palazzo Ducale, già fortemente danneggiato dal sisma del 1984 e mai rimesso in ordine dalle Amministrazioni Comunali in questi ultimi 25 anni. Di conseguenza, sono state fatte evacuare alcune case e alcune famiglie che abitavano nei paraggi del Palazzo Ducale poiché si paventava un crollo definitivo dello stesso. Inoltre sono state sgomberate tutte le abitazioni risultate non essere agibili. Per questi motivi, il Comune di Bugnara è rientrato nel "Decreto Terremoto" affinché si possa procedere ad una giusta ricostruzione del centro storico. È l'unico comune della Valle Peligna, che, attualmente, risulta inserito nel cosiddetto "cratere sismico". Il castello Di Sangro, detto anche Palazzo Ducale o Rocca dello Scorpione, è stato abitato dalla famiglia de Sangro fino al 1500. La sua struttura architettonica è massiccia ed imponente, fu costruito sicuramente per esigenze difensive anche se mantiene tracce di una vita comoda e agiata, con stanze ampie e ben illuminate. Addirittura si parla dell’esistenza di cunicoli sotterranei di cui però non si hanno notizie certe. L'edificio è cinto da mura. Consta di due torrette e poteva offrire protezione alla popolazione di Bugnara posta sotto assedio. Il Palazzo ha infatti le sembianze di un vero borgo fortificato che, in caso di pericolo, consentiva un valido sistema di autodifesa in caso di attacco prolungato. Situato nella parte più alta del paese, sembra delimitare il confine tra il centro abitato, compatto e poco esteso, e i vasti spazi aperti della montagna, regno incontrastato di pastori e greggi. Difatti, lassù in alto restano ancora oggi tracce degli antichi tratturi, utilizzati fin dall’epoca romana, che nel periodo della transumanza venivano ininterrottamente calpestati al ritmo scandito dalle stagioni poiché la pratica dell’allevamento ovino sin dall’antichità ha sempre rappresentato il sostegno principale dell’economia, della società e della cultura della zona. Dopo anni di abbandono, in cui non è stata attivata nessuna iniziativa di puntellamento, di messa in sicurezza, di eliminazione delle parti pericolanti, pare che finalmente si stia pensando ad un piano di restauro.
Foto: di Susan Cardwell su en.wikipedia.org e da gruscitti.wordpress.com

martedì 24 giugno 2014

Il castello di martedì 24 giugno






CASCIA (PG) - Rocca di Paolo II

Risalendo lungo la Valle del Fiume Corno, sovrastati dagli impervi versanti del Monte Maggio, si arriva a Cascia, antico castello di pendio sorto sul fianco di una cresta montuosa. In antichità erano ben 23 i castelli che sorgevano nei punti strategici dei monti di Cascia, a difesa del territorio. Inoltre, essendo il fiume Corno via di passaggio verso sud, anche il Colle Sant`Agostino fu cinto di mura, come quelle che difendevano tutta la città. Il periodo che va dal XV al XVIII secolo fu sicuramente il più ricco e fecondo come testimoniano le chiese ed i numerosi palazzi signorili. Nel sec. XII, costituitasi a repubblica indipendente, Cascia sentì il bisogno di rafforzare ed ampliare la cinta muraria e di erigere un cassero nella parte più elevata, dove più facile era la difesa. Dopo un periodo funestato da lotte intestine (secc. XIV e XV), Papa Paolo II, appena asceso al soglio pontificio, fece erigere, sul colle di S. Agostino, la Rocca di Cascia sulle fondamenta della precedente fortezza, per il controllo delle opposte fazioni della città. I lavori, iniziati nel 1465, furono portati a compimento entro l’anno successivo. Il vecchio cassero fu demolito e sulla sommità della collina sorse un nuovo fortilizio. Sul bastione di sud-ovest fu collocato lo stemma in pietra del pontefice committente (stemma raffigurante un leone rampante e bande, oggi collocato nella stanza 1 del Piano Nobile del Museo Civico di Palazzo Santi). Il fortilizio fu restaurato tra il 1540 e il 1549. Nel 1491 all’interno della Rocca fu fatta costruire da Leonardo Cibo, governatore di Spoleto e parente del Papa, una torre maestra di avvistamento, alta trenta metri e collegata a vista con le torri di Collegiacone, Roccaporena, San Giorgio e Frenfano. Su di essa fu collocata la campana che attualmente si trova sul campanile comunale. Poi, a seguito di numerose sommosse, nel 1517 Papa Leone X ordinò la demolizione della rocca. Questo avvenne perché secondo il pontefice, il popolo di Cascia doveva essere governato, contrariamente a quanto aveva pensato il suo predecessore Paolo II, con il sorriso e non con la forza. I ruderi restanti, che hanno resistito anche ad alcuni terremoti, testimoniano che la fortificazione aveva una forma asimmetrica a forma di trapezio irregolare di circa 50 x 33 x 60 m, con torrioni di 30 m di circonferenza. Ad ovest era protetta da un profondo fossato largo circa 18 metri, mentre a nord e a sud era difesa da forti strapiombi e ad est da un secondo ordine di mura. Al suo interno, oltre alla dimore del castellano, era situata una cappella. E` presente anche un pozzo. Simbolo della potenza della città di Cascia nel periodo altomedievale, la rocca ad oggi è interessata da importanti interventi di restauro e consolidamento. Secondo la tradizione, qui avrebbe sostato Santa Rita durante il suo miracoloso viaggio aereo, in seguito al quale fu condotta dai suoi tre Santi protettori (Agostino d'Ippona, Giovanni Battista e Nicola da Tolentino) fin dentro le mura del monastero di Santa Maria Maddalena, dove fu accolta e visse fino alla morte.




Fonti: http://www.lavalnerina.it/dett_luogo.php?id_item=960, http://www.umbriavalnerina.it/ita/Cascia/,http://www.camperlife.it/notizie/litalia-si-svela-cascia-umbria-13185.html#

Foto: da http://www.camperlife.it e di Alberto Gagliardi su http://rete.comuni-italiani.it

domenica 22 giugno 2014

Il castello di lunedì 23 giugno






Di Mimmo Ciurlia

SAN SEVERINO MARCHE  (MC) – Castello di Pitino

Sorge a circa 10 Km da San Severino Marche, su di un colle alto 602 metri s.l.m. ed è tra i più imponenti castelli severinati. Fu una florida dimora feudale che la tradizione vuole fondata da Marco Petilio, nobile romano che vi si insediò in fuga dai barbari dalla città di Septempeda. La sua posizione sopra ad un colle rendeva questo castello importantissimo dal punto di vista strategico, consentendogli infatti di dominare l’intera valle del fiume Potenza e dunque la via di comunicazione tra l’Umbria e il mare Adriatico passante per la città romana di Helvia Ricina. Proprio per questo, durante tutto il Medioevo, Pitino fu conteso dai vicini comuni di San Severino, Montecchio (Treia), Camerino, Tolentino e Cingoli. I feudatari signori di Pitino per difendersi si posero prima (nel 1192) sotto la protezione di Treia, poi (nel 1205) sotto quella di Tolentino, che ebbe la giurisdizione del castello fino al 1239. In quell’anno l’imperatore Federico II di Svevia, che si era impadronito di tutta la Marca, lo cedette al comune di San Severino da sempre fedele alla parte ghibellina. La deposizione di Federico II nel concilio di Lione (1245) e la fine della casa di Svevia riaccesero le contese; i guelfi ebbero il sopravvento ovunque. Anche San Severino dovette assoggettarsi al pontefice, ma riuscì a conservare definitivamente il castello, ricostruito agli inizi del XIII secolo nell’impianto che ancora oggi si conserva. Nell’estate del 1426 Pitino subì l’ultimo assedio della sua lunga storia da parte delle truppe pontificie in lotta contro gli Smeducci, che vi tentarono l’estrema difesa della loro signoria. Il complesso tipologicamente si configura come castello murato, che ripropone gli schemi della fortificazione romana, con recinto a salientie rientranti, rafforzato da torri e comandato da una rocca, che a sua volta aveva nella torre maestra l’elemento essenziale di dominio e di difesa. Allo stato attuale il complesso è composto dalla cinta muraria e da due nuclei, uno più antico (torre, chiesetta, cripta) e uno più recente (chiesa maggiore, canonica e locali annessi). Il castello ha un perimetro di 400 metri circa, con una forma vagamente triangolare con il vertice a sud, dove è ubicata l’unica porta d’ingresso ( ma dovevano esserci ingressi anche in altri punti della cinta) e la base a nord, dove domina il grande torrione in pietra
silico-arenaria, alto circa 23 m. e largo 5,75 m. per lato con 1,75m di spessore, risalente all’inizio del XIII secolo, quando il castello fu riedificato. La torre è priva di ingressi in quanto vi si accede dai sotterranei il cui ingresso è nelle adiacenti costruzioni rendendola così ancor più protetta. La cinta muraria, di circa 1,20 metri di spessore, è conservata oggi in minima parte e solo sul lato est presenta tratti di dimensione apprezzabile. Partendo dal grande torrione si può riscontrare il tratto più conservato della cinta, di circa 64 metri di lunghezza e di 6 metri di altezza, con due ruderi di torrione sporgenti due - tre metri dalla muraglia: il maggiore di 6 metri di larghezza e 12 di altezza,il minore di 5 metri di larghezza e 8,50 di altezza. Proseguendo verso sud si nota un vuoto di 46 metri circa dove una fitta boscaglia impedisce la vista delle tracce dell’antico manufatto, quindi un nuovo tratto di circa 75 metri, dal profilo molto frastagliato, dell’altezza variabile da 2 a 6 metri; al centro dei ruderi di un altro torrione della larghezza di 5 metri e dell’altezza di 8. All’estremità sud questo tratto di mura si salda all’antica porta d’ingresso, costituita da un torrione di 5 metri di larghezza, 5 di altezza e 3 di profondità, dalle volte in mattoni. Tutto il versante ovest presenta solo pochi frammenti delle antiche mura e di un bastione; in prossimità del grande torrione il muro di cinta coincide con il corpo di fabbrica dell’antica chiesetta di S. Antonio e annessi, il cui insieme andava a saldarsi al torrione stesso. All’interno della cinta muraria sono presenti, oggi, la chiesa grande e la sua torre campanaria (d’impianto tardo medioevale trasformata nel Settecento e restaurata, nel solo esterno, dalla Soprintendenza), un fabbricato adiacente a due piani già adibito a canonica (in precario stato di conservazione) e un altro edificio, di modesta fattura (ridotto ormai ad un rudere) destinato probabilmente ad abitazione colonica, collegato con un sovrappasso al precedente. Nella parte settentrionale del perimetro ci sono alcune feritoie, che rappresentano tentativi di adeguamento alle armi da fuoco, ma per il resto, l’impianto ha mantenuto la struttura originaria. A poche decine di metri all’esterno delle mura, in un pianoro che guarda il mare, rimane il piccolo cimitero rurale, ormai abbandonato, che purtroppo, in tempi recenti è stato oggetto di numerose profanazioni e di attenzioni da parte di sette sataniche che hanno contribuito a far crescere nella popolazione una fascinosa visione esoterica del luogo. Il percorso per arrivarci è una piacevole passeggiata per le tipiche campagne marchigiane tra campi coltivati e casolari immersi tra le verdi colline con le montagne a fare da sfondo. Pittori e musicisti, ai giorni nostri come nel passato, salgono lassù per trarre ispirazione dal suono del vento tra le rovine e dal volo delle poiane. Forse per questo una leggenda vuole che di notte si sentano le note struggenti di un violino o i ritmi incalzanti di tamburi. La visita del castello di Pitino è, in ogni caso, sempre un'esperienza emozionante.

Il castello di domenica 22 giugno






TURSI (MT) – Castello

Il grande centro abitato di Tursi pare fosse stato abitato e costruito nel IV e V sec. dai Goti che, penetrando nell’Italia semidesertica, colonizzarono estese terre un tempo controllate dalla fattorie romane tardoantiche, che a loro volta vennero via via abbandonate. Si racconta che il primo nucleo della città prese il nome di "Rabatana" o "Arabatana" perché un gruppo di Saraceni volle erigere una torre, dove poi avrebbe dimorato il loto capo, un certo Tursico. Nel corso dei secoli IX e X da Bari, sede di un emirato arabo dall'847 all'871, gli Arabi si spinsero all'interno dell'Italia meridionale, quindi anche della Basilicata, per compiere saccheggi e catturare prigionieri da vendere come schiavi nei centri dell'impero islamico, in quel periodo in una fase di massima espansione. Secondo alcuni cronisti del tempo e secondo le fonti disponibili, gli stanziamenti arabi furono consistenti e di lunga durata in molti centri del medio bacino del Bradano e del Basento, nel Basso Potentino e nella Val d'Agri. Le numerose tracce architettoniche che ancora si possono leggere in molti centri storici e le tracce linguistiche nei dialetti locali, fanno ritenere che non si trattò esclusivamente di insediamenti militari, ma di vere e proprie comunità articolate, dove un ruolo di rilievo era svolto da mercanti ed artigiani. Le tracce degli insediamenti arabi sono ancora perfettamente leggibili a Tursi, a Tricarico e a Pietrapertosa: si tratta di quartieri che la tradizione appella come Rabatana, Rabata o Ravata, richiamando etimologicamente il termine ribat, che in arabo significa luogo di sosta o anche posto fortificato. Sono per esempio ancora leggibili a Tricarico i due quartieri della Rabata e della Saracena, con le porte di accesso e le rispettive torri, risalenti all'XI secolo. L'abitato è diviso in due da una stretta strada principale, l'araba shari, da cui si dipartono le vie secondarie (darb), che si intrecciano tra loro e si concludono in vicoli ciechi (sucac), che definiscono unità di vicinato ben distinte l'una dall'altra; i singoli nuclei abitativi, spesso ipogei, se da un lato tendono a chiudersi in difesa rispetto all'esterno, dall'altro con questo comunicano attraverso i terrazzamenti degradanti, coltivati ad orti o a frutteto, disposti a corona lungo il perimetro del tessuto edilizio. La Rabatana di Tursi coincide con la parte più alta dell'abitato altomedievale, in ottima posizione difensiva. L'intrico edilizio che ancora caratterizza questo quartiere era dominato dalla presenza del castello, di cui attualmente restano poche tracce. La Rabatana è collegata al corpo del paese per mezzo di una strada ripida (in dialetto "a pitrizze"). L'antico borgo saraceno è indissolubilmente legato alla poesia dialettale di Albino Pierro. Nei dirupi sottostanti, a testimonianza dell'antichità del luogo, sono state trovate alcune palle di piombo a forma di olive, con un piccolo buco in uno degli angoli, con incisioni in greco ed in latino, che venivano lanciate contro i nemici con fionde, da tiratori scelti, dai romani denominati marziobarbuli. Nel cuore della Rabatana sorge la Chiesa Collegiata di S. Maria Maggiore, e, volgarmente detta Madonna della Cona. All'interno vi è una catacomba (Kjpogeum), di struttura gotica e adornata da scritture sacre. Gli affreschi presenti, risalenti al XVI secolo, sono riconducibili a Simone da Firenze e ad allievi della scuola di Giotto. Al suo interno si trova inoltre uno stupendo presepe in pietra realizzato nel XV sec. da autore incerto (Altobello Persio o più probabilmente Stefano da Putignano, autore del presepe presente all'interno della Cattedrale di Altamura). Una tradizione vuole che questo Tursico, stanco ed ormai vecchio delle scorrerie, decise di dare in sposa la propria figlia al signore di un altro villaggio vicino, quello di Santa Maria d’Anglona. Tutto fu preparato per le nozze, anche perché la figlia di Tursico era bellissima con capelli ed occhi neri, e quindi molto ambita dai piccoli musulmani del tempo che allora abitavano in Basilicata; ma avvenne un fatto gravissimo. La piccola fanciulla, che doveva possedere poco meno di dodici anni, si era invaghita di un suo schiavo. Il padre se ne accorse, e decise di uccidere lo schiavo gettandolo da una rupe al di sotto della Arabatana. Nel mentre si preparavano le nozze, dopo la cerimonia di investitura del signore di Santa Maria d’Anglona, la piccola fanciulla non fu più trovata accanto al suo sposo, ma impiccata nella casa fortificata di Tursi. Il grande Tursico, conscio della sua arroganza e colmo di dolore per la morte della figlia, decise allora di convertirsi al cristianesimo e di liberare completamente la città ed il territorio dalla scorrerie arabe. Da Piazza Maria SS. di Anglona, a 346 metri di altezza, si scorgono i resti dell’antico castello costruito dai Goti, nel V secolo, per difesa del territorio: alcune parti del castello e i cunicoli sotterranei sono rimasti intatti. I recenti scavi nei pressi del castello hanno messo alla luce scheletri, tombe, monete, frammenti di anfore e palle ogivali di piombo recanti la scritte EYHfIDA (greca) e APNIA (latina), usate, probabilmente, come proiettili lanciate con la fionda a difesa della fortezza. Da atti del 1553, tra la Città di Tursi e il Marchese Galeazzo Pinelli, si rileva che il castello era abitato fino al XVI secolo. Era costituito da due piani e due torri. Alcune stampe lo riportano di forma quadrangolare con torri nei quattro angoli. Il castello aveva una superficie di oltre 5000 metri quadrati, misurando 200 palmi di larghezza e 400 palmi di lunghezza, e dentro le mura di cinta erano compresi un giardino, cantine, cisterne e comode abitazioni per i baroni (che costituivano un quarto dell’intera superficie). L’ingresso era regolato da un ponte levatoio. Dimora di numerosi signori, principi e marchesi, durante i periodi di guerra diventava una fortezza. Per tradizione si crede all’esistenza di un cunicolo tra la chiesa di Santa Maria Maggiore e il suddetto castello, che nei tempi antichi consentiva ai Signori di recarsi indisturbati in Chiesa. Dell'area su cui si estendeva il maniero oggi non esiste altro che una piccola torre posta a rinforzo di un più grande torrione circolare definitivamente abbattuto.

venerdì 20 giugno 2014

Il castello di sabato 21 giugno




SALSOMAGGIORE TERME (PR) – Castello Pallavicino in frazione Scipione

Scipione Castello è un borgo medioevale che si trova nelle prime colline dell’appennino parmense, a poca distanza dal torrente Stirone, ed è contraddistinto dal castello, intorno al quale si sviluppa il piccolo abitato. Il castello di Scipione, costruito nel secolo XI dai marchesi Pallavicino (da Adalberto), fu eretto nel contesto del controllo strategico della valle dello Stirone, insieme ad altre fortificazioni, tra cui il castello di Vigoleno, il castello di Bargone ed il castello di Contignaco (http://castelliere.blogspot.it/2013/03/il-castello-di-giovedi-7-marzo.html). Secondo la leggenda, il maniero fu edificato sui resti della villa romana di Gneo Scipione. Nel 1267, al tempo delle lotte tra guelfi e ghibellini, subì diversi attacchi dai piacentini e successivamente, negli anni 1403 e 1407, dalle famiglie guelfe Rossi, da Correggio e Terzi. Nel 1447 i fratelli Lodovico e Giovanni Pallavicino lo ricostruirono adottando le più moderne tecniche difensive dell’epoca. In particolare, si possono notare ancora oggi il torrione, dalla forma cilindrica, e le mura a scarpatura abbassate e rinforzate : tali tecniche costruttive rendevano il castello meno vulnerabile agli attacchi delle nuove armi da fuoco dell’epoca. Allo stesso periodo risalgono anche le prigioni, rimaste intatte fino ad oggi. Il castello di Scipione ebbe una grande importanza, in particolare nel Medioevo, per effetto della posizione strategica a difesa dei numerosi pozzi di sale, di cui i marchesi Pallavicino erano i maggiori produttori e i più potenti controllori ed arbitri del mercato. In tal senso, essi promuovevano lo sviluppo delle produzione, scavando nuovi pozzi intorno a Salsomaggiore. Il sale, elemento indispensabile per la conservazione del cibo, fino all’utilizzo massiccio delle tecniche di refrigerazione, è stato per millenni una delle merci più ricercate e preziose ed ha delineato anche alcune vie di comunicazione, note come via del sale. Il castello di Scipione viene nominato, a volte, anche come il "castello del sale". Le stesse acque salsoiodiche, presenti per effetto del fenomeno geologico noto come salsa, dalle quali un tempo si estraeva il sale, sono oggi apprezzate per il loro elevato potere tarapeutico e hanno dato origine al termalismo di Salsomaggiore Terme. Il castello di Scipione rimase quasi sempre in possesso alla famiglia Pallavicino, tranne che per un breve periodo dopo la prima guerra mondiale, in occasione della donazione della marchesa Clelia Sforza Fogliani d'Aragona, vedova di Ludovico Pallavicino, all’Opera Nazionale Orfani di Guerra. Successivamente il castello fu acquistato dal diplomatico danese Christian Frederik dei conti von Holstein, donandolo alla moglie, marchesa Maria Luisa Pallavicino, e facendone la loro residenza. Il castello ritornò così al ramo primogenito della sua famiglia fondatrice. Del maniero restano la torre cilindrica, alcune solide cortine murarie, un cortile ed un loggiato seicenteschi ed alcune sale decorate nei secoli XVI e XVII. Si può ancora osservare un pregevole soffitto a cassettoni intagliati con lo stemma dei Pallavicino (risalente alla seconda metà del Quattrocento). Il castello di Scipione fa parte del circuito dei castelli del ducato di Parma e Piacenza. Il maniero venne utilizzato in vari periodi dal 1940 alla fine della seconda guerra mondiale come campo di concentramento: in un primo momento vi furono internati cittadini stranieri nemici e prigionieri politici (in particolare sloveni e dalmati), arrivando a contenere fino a 170 prigionieri, e dopo l'8 settembre 1943 divenne un campo di smistamento prima della deportazione definitiva verso lager nazisti in Germania ed Europa del nord. Il Castello di Scipione, è stato tra i primi della regione ad essere dichiarato Monumento Nazionale nel 1922, per la sua valenza storico-artistica e paesaggistica. Oggi, all'interno del suo complesso, offre vari spazi di grande suggestione per l'organizzazione di eventi, in un'atmosfera magica e incantata, che rispecchia l'autenticità del luogo. Si può scegliere tra i saloni del castello, con affreschi e decorazioni del Seicento e del Quattrocento e con una capienza interna di circa 300 persone, e l'ambiente più rustico delle antiche scuderie, ognuno con finestre aperte sul paesaggio collinare. E' a disposizione degli ospiti anche l'ampio parco ai piedi del castello preceduto dal Cortile d'Onore e la terrazza con l'elegante loggiato seicentesco, unico nella zona, entrambi con vista panoramica d'eccezione. Sono inoltre disponibili all'interno del castello due suites di charme con ingressi indipendenti, nella torre trecentesca e nell'ala Est, vicino all'antico ingresso, per trascorrere un soggiorno in un contesto esclusivo, in un'atmosfera romantica e ricca di storia, immersi nella natura. Ecco il suo sito web ufficiale: http://www.castellodiscipione.it, di cui consiglio la visita per approfondire l’argomento. In più, un video trovato sul web: http://www.youtube.com/watch?v=u8xhmNz2jT0
Fonti: http://it.wikipedia.org, http://www.residenzedepoca.it, http://www.portalesalsomaggiore.it
Foto: da http://viaggiverdi.it e da http://www.castellidelducato.it

giovedì 19 giugno 2014

Il castello di venerdì 20 giugno






MONTOGGIO (GE) – Castello Fieschi

Posto a guardia dell'alta valle Scrivia, di esso si hanno notizie a partire dal 1157 quando il Monte Obblum, come veniva chiamato in antichità, viene citato insieme ai castelli di Savignone, Padrania e altri dell'Alta Valle Scrivia, nel documento in cui Papa Adriano IV li conferma tra i possedimenti del Vescovo di Tortona Oberto. Ma Papa Innocenzo III, il 30 aprile del 1198, confermò i possedimenti pertinenti alla Diocesi di Tortona indicando Montoggio tra i termini di confine con l'Arcidiocesi di Genova. L’idea di “segnare un confine” fu determinante per capire la rilevanza di questi castelli; la loro posizione sulla via di transito tra Genova e l'area padana, le possibilità di commercio che vi si prospettavano, l'importanza dal punto di vista strategico-militare rendeva questi insediamenti appetibili per le realtà politiche laiche e religiose, di diversa natura, che si spartivano quell'area. Soprattutto Genova non abbandonò mai l'idea di espandersi nell'Oltregiogo. Siamo agli albori del XIII secolo, precisamente il 7 gennaio 1215, quando i genovesi concessero la cittadinanza a un certo Oberto de Montobii. Da questo momento in poi il borgo e il castello dal XIII secolo entrarono a far parte della storia di Genova, in alcuni frangenti per esserne parte, in altri  per rappresentare una minaccia, proprio come ai tempi della dominazione fliscana (dei Fieschi), quando la pressione che dall'appennino si riversava sulla città fu tale da destabilizzarla. Montoggio entrò a far parte dei territori controllati dai conti di Lavagna, che iniziarono a interessarsene inizialmente in antagonismo ad Ansaldo De Mari, ammiraglio di Federico II e avversario di Papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi, aveva infatti comprato metà del castello di Montoggio da Opizzo di Montoggio nel 1232. Non sappiamo con certezza quali furono le condizioni che portarono al passaggio di Montoggio nelle mani della casata dei Fieschi, sappiamo però che nel 1386 Antonio Fieschi risultava signore oltre che del castello, di molti feudi tra cui Torriglia, Pontremoli, Borgo val di Taro, Calestano, Vigolone, e altri, tutti territori di grande importanza strategica per le relazioni commerciali e diplomatiche che potevano comportare. Da questo momento in poi il feudo seguì in posizione predominante, insieme a Torriglia, tutte le vicende pertinenti quello che viene definito lo stato dei Fieschi, una delle più influenti famiglie genovesi, che ne fecero una loro roccaforte soprattutto nel XV e XVI secolo. Il castello venne fortemente munito verso la metà del XVI secolo per essere adattato a resistere alle nuove armi da fuoco. Resta legato soprattutto alle vicende della congiura di Gianluigi Fieschi e alla sua drammatica conclusione (1547). In tali circostanze venne infatti completamente demolito con gli esplosivi. Oggi di esso restano soltanto alcune rovine coperte dalla vegetazione, visibili su una collina situata poco distante dal comune di Montoggio. Per fornirne una ricostruzione, in via ipotetica, è possibile ricavarne un risultato soddisfacente dai dati d'archivio. Nel XVI secolo l'ingresso era posto a ponente ed era costituito da una fortificazione a parte, di pianta quadrata, ben difesa e munita. Questo ingresso a torrione immetteva in un ampio cortile, in pratica una vasta piazza rettangolare di circa 70 metri per 25, al cui limite opposto stava il nucleo interno del castello. Il cortile, stretto e lungo, era delimitato da due spessi muri di cinta, coperti da una merlatura, e nei quali si aprivano numerose feritoie. Tali muri, correnti per i lati lunghi del cortile, congiungevano due angoli dell'ingresso a torrione con la parte ancora più fortificata della residenza. Le difese di questa piazza recintata erano anche naturali, con il precipizio che la delimitava oltre le sue mura sul lato a meridione, mentre a settentrione era protetto dal ripido versante del rilievo in salita. Procedendo verso la parte più interna - dalla piazza, costituita come piazza d'armi, che conduceva a quella che era la parte abitata dai signori - si passava in direzione di levante un ulteriore e profondo fossato che proteggeva il cuore del fortilizio. Il corpo principale del castello era composto da un unico blocco, una grande e massiccia costruzione quadrata di circa 40 metri di lato, munita agli angoli da quattro torrioni circolari aggettanti all'esterno e verso l'interno. Questi torrioni avevano un'ulteriore prosecuzione in torrette a pianta quadrata. Pe la parte basamentale possono richiamare nelle forme l'unico torrione posto nel vicino castello di Savignone. La tipologia, in Montoggio ben più rafforzata, costituiva uno degli esempi di adattamento alle nuove armi da fuoco, seguendo le recenti sperimentazioni che in Genova si erano potute vedere con le fortezze di Castelletto e della Briglia. Si trattava di una torre tendente a trasformandosi in bastione, ma ancora diversa da quello triangolare, realizzato per la prima volta in Genova dai bastioni delle Mura delle Cappuccine progettati dall'Olgiati. Le torrette a pianta quadrata che su di essi si innestavano, come è possibile desumere dai disegni d'epoca, erano di fatto troppo esili ed alte, e potevano anche essere considerate un controsenso per la loro scarsa resistenza ai cannoni, a meno che la protezione della parte basilare su cui si innestavano le avesse poste fuori tiro. Difficile ripercorrere una ricostruzione storica di queste torrette dato che quanto rimane è relativo alle sole parti circolari di base. Il corpo centrale era stato progressivamente trasformato in un complesso architettonico molto articolato, con camminamenti, sotterranei, casematte, spalti, feritoie, caditoie, etc. Il pianterreno del corpo centrale era diviso in due aree: la prima comprendente un'ampia cantina con una cisterna per l'acqua, la seconda, dove si trovavano il forno e la cucina. Il piano superiore comprendeva circa tredici sale tra quelle private appartenenti alla famiglia e quelle destinate alla vita sociale. Da qui si poteva accedere ai torrioni superiori. Anche il mastio circolare centrale, stando ai disegni, parrebbe assottigliarsi sempre più nelle parti alte; tuttavia le sue strutture in alzato sono scomparse totalmente nella demolizione per cui dal punto di vista della composizione delle sue mura poco si può dire. Sotto Sinibaldo Fieschi - prima ancora che sotto suo figlio Gianluigi - il castello aveva a disposizione una serie di armi da fuoco, di cui resta testimonianza peraltro solo negli archivi di famiglia. È possibile ricostruire lo stato di fortificazione in cui il castello era stato lasciato da Sinibaldo Fieschi nei primi decenni del Cinquecento. Lungo i lati esterni posti a meridione e a levante, trovandosi a perpendicolo sopra il precipizio e pertanto inespugnabili per le artiglierie di allora, i relativi due torrioni angolari che guardavano a meridione non erano muniti di artiglierie. Forti artiglierie erano invece situate nei due torrioni a nord: di essi quello posto verso la cisterna di San Rocco aveva quattro piccoli cannoni, detti smerigi, e quattro grossi archibugi; l'altro torrione verso il bosco aveva quattro pezzi grossi d'artiglieria detti sagri, dodici smerigi, una piccola bombarda, sedici archibugi di metallo o archibusioni, necessari a bloccare il nemico che attaccava da ponente. Ancora più armato era il corridoio interno posto dietro al bastione di ponente che, posto oltre il fossato, dominava la piazza d'armi. Qui si trovavano un grosso cannone, un cannone cultato, una colubrina e una mezza colubrina. Il quadrilatero fortificato era pertanto fornito di artiglieria sui due lati di ponente e di tramontana. Il deposito delle armi era situato nel fondo della sala interna, ovvero nella parte abitativa, dove si trovavano venticinque archibusi, sette schioppetti, cinque smerigioni, quarantasette balestre da banco. In totale, quattro sagri, ventuno smerigi, una bombarda, quarantacinque archibugi, sei cannoni, una colubrina, una mezza colubrina, sette schioppetti, quarantasette balestre, oltre agli accessori (caricatori, incudini, fucine, mortai e le armi bianche). Circa due decenni dopo il castello, ulteriormente fortificato dal figlio di Sinibaldo, Gianluigi, (le mura erano state allargate sino a 15 piedi, gli spalti modificati con la pendenza a scarpa, aggiunti nuovi bastioni minori e altre difese, riparati i punti deboli) fu teatro dell'ultima resistenza dei congiurati del 1547. L'azione di assedio venne effettuata da parte delle milizie della Repubblica di Genova, e fu voluta da Andrea Doria, contro il quale era stata diretta la rivolta di Gianluigi Fieschi, per stroncare l'ultima resistenza della famiglia divenuta sua nemica. Nel castello di Montoggio infatti si era rinchiuso con i suoi ultimi fedeli il fratello di Gianluigi, Gerolamo Fieschi, ed erano arrivati in suo aiuto altri due congiurati di Gianluigi, Giovanni Battista Verrina e Vincenzo Calcagno, provenienti dalla Francia, dove si erano rifugiati nel momento in cui la morte accidentale di Gianluigi aveva fatto fallire la rivolta. In Francia avevano preso nuovi contatti e contavano su promesse d'aiuto, benché vaghe, da parte del re di Francia. Altre promesse d'aiuto, ma ancor più vaghe una volta vista l'inconsistenza del tentativo, venivano dai Farnese di Piacenza.
Fu inviato ad espugnare il castello Agostino Spinola con un esercito genovese. Una prima intimazione da parte dei commissari della Repubblica di deporre le armi fu respinta da Gerolamo Fieschi. Rifiutata fu ancora una seconda proposta del Senato, portata da Paolo Panza, di cedere il castello su compenso di 50.000 scudi d'oro. Contando sul possibile aiuto francese o per lo meno dalla parte filofrancese, Gerolamo rifiutò di cedere la fortezza e decise di resistere al nemico. Altri dettagli su questo evento storico sono al seguente link: http://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_e_distruzione_del_Castello_di_Montoggio
Del castello, una volta vinti i rivoltosi, il Senato ordinò la demolizione con decreto dell'11 giugno. Esso nell'agosto venne minato e fatto saltare in aria nel settembre del 1547. Ma la sua struttura era tale, e lo spessore delle muraglie così grandioso, che gli artificieri dovettero lavorare altri 2 anni per completare l’opera e ridurre il complesso fortilizio nello stato attuale. Altri link per approfondire: http://www.mondimedievali.net/castelli/liguria/genova/montoggio.htm, http://www.tor.it/danant/fiemont.html, http://turismo.provincia.genova.it/pdi/ruderi-di-castello-dei-fieschi-di-montoggio, http://www.youtube.com/watch?v=IWDNQRnWlVQ (video Regione Liguria).

Foto: da www.liguriaheritage.it e un disegno antico (di come doveva essere il castello prima della sua distruzione) da www.mondimedievali.net

Il castello di giovedì 19 giugno






TORRE PALLAVICINA (BG) – Torre di Tristano e Palazzo Barbò

Prima del XIV secolo l'abitato si denominava Fiorano (Floranum), un toponimo che denuncia chiaramente la sua origine romana poiché deriva dal nome del colono romano Florus, che qui si costruì la sua fattoria in seguito all'operazione di centuriazione della pianura bergamasca avvenuta in epoca imperiale. Il vicus et fundus Floranum è citato in un documento dell'anno 840; in un altro dell'anno 948 è nominato il villaggio di Valsorda, oggi ridotto a cascinale. Nell'alto medioevo il territorio di Fiorano fu proprietà del monastero femminile di Santa Giulia di Brescia e poi di quello maschile benedettino di San Lorenzo di Cremona. Al XII secolo risale l'origine della chiesa romanica dei Santi Nazario e Celso, dipendente dalla pieve di Calcio. La pianura orientale bergamasca e la Calciana nei primi decenni del XIV secolo risultavano quasi del tutto spopolate a causa delle guerre, prima tra Papato e Impero, e poi tra Guelfi e Ghibellini; lotte che coinvolsero soprattutto quest'area di confine tra i territori di Bergamo, Cremona e Brescia. Nel 1366 le terre di Calcio, Pumenengo e Fiorano furono acquistati da Regina della Scala, moglie del duca Bernabò Visconti, che tentò in ogni modo di ripopolarli grazie ai vantaggiosi privilegi concessi dal marito alle sue proprietà. Nel 1380 la duchessa rivendette il suo feudo a vari proprietari: Calcio ai Secco, Pumenengo ai Barbò e Fiorano ai Covi e Cropelli. Tutti i nuovi proprietari si alternavano nel governo del feudo (il cosiddetto Condominio della Calciana), che continuò a godere privilegi, esenzioni fiscali e ampie autonomie dallo stato centrale. A seguito della Pace di Lodi del 1453 tra il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta, Francesco Sforza commissionò al figlio naturale Tristano la costruzione di una torre di guardia del confine che avrebbe dovuto seguire, come stabilito dal trattato, il corso del fiume Oglio tra Soncino e Pumenengo. La torre, detta di Tristano, venne così eretta sulle terre dei Conti Barbò, feudatari dei luoghi sin dal 1070, in contrapposizione a Roccafranca, posta sul lato veneto del fiume. Il primo insediamento sorto presso la torre si denominò Torre di Tristano e quando la sua unica figlia Elisabetta portò in dote l'intera proprietà al marito Galeazzo Pallavicino (1484), il villaggiò mutò nome in Torre Pallavicina, nome che conserva tuttora. Nei primi anni del Cinquecento Adalberto Pallavicino fece erigere presso la torre medievale lo splendido palazzo, probabilmente da architetti che allora operavano in Mantova, e fece scavare il Naviglio Pallavicino che ancor oggi irriga gran parte dell'alta pianura cremonese. Egli decise di costruire una sontuosa dimora "… per non voler più seguire principi ingrati…" e quale "… sede di ozio di pace per sé e per i suoi amici (SIBI ET AMICIS)", proposito che si può leggere scolpito con un fregio, sulla pietra che corre sopra i portici della facciata. Il nome Pallavicino pare derivi da Pelavicini (deruba i vicini). Si dice infatti che i Pelavicini, poi Pallavicini, si chiamassero con quel soprannome perché erano facili ad impadronirsi dei beni altrui. Galeazzo Pallavicino dei marchesi di Busseto fu un abilissimo guerriero: venne nominato cavaliere nel 1478 ed eletto consigliere ducale nel 1483 da Gian Galeazzo Maria Sforza per essersi distinto in molte battaglie. Combattè con gli Sforza contro i francesi e poi con i francesi contro gli Sforza. Morì nel 1520 senza vedere il ritorno degli Sforza a Milano. I discendenti fecero costruire anche due oratori: uno fu fondato dal figlio Adalberto nel 1568 e fu dedicato a S.Lucia, l'altro, ultimato nel 1638, dal nipote Alessandro Galeazzo che lo dedicò alla Vergine di Loreto e lo dotò di un legato per i bisogni del culto. La linea maschile della dinastia terminò verso il 1850 con Giuseppe, il quale non ebbe discendenti: l'intero patrimonio passò così alla sorella che aveva sposato Gerolamo Barbò. Dai Pallavicino ebbero origine anche le famiglie degli Estensi, degli Obizzo, dei Massa e dei Malaspina. Essendo zona spartiacque anche tra la Repubblica di Venezia ed il Ducato di Milano, Torre Pallavicina venne inserita in una vera e propria zona franca, chiamata Calciana, senza tasse da versare e con una propria amministrazione. E come in tutte le zone di confine, notevole era il contrabbando praticato nonostante le rigide leggi che lo vietavano, pena dure sanzioni, anche se per gli abitanti stessi questa era una delle principali fonti di sostentamento. La conquista napoleonica del 1796 mise fine al feudo dei Condòmini; la Calciana e la Gera d'Adda furono aggregate a Bergamo. La torre, realizzata interamente in mattoni, è munita sui quattro lati di beccatelli sporgenti e piombatoi che ne garantivano la difesa dall'alto. La merlatura è stata inglobata dal sopralzo realizzato in epoca rinascimentale. Una passerella, originale nella sua struttura, mette in comunicazione l'antica torre di difesa con lo splendido palazzo residenziale fatto costruire nel 1550. Il fronte principale della costruzione è caratterizzato da un portico sorretto da archi sopra i quali spiccano, scolpiti nella pietra, stemmi nobiliari, mentre sotto i portici sono affrescati quelli delle famiglie che si succedettero nel possesso della costruzione. Tutte le finestre e le porte d'accesso portano la scritta "AD.MA.PA" (Adalberto Marchese Pallavicino) a ricordo perenne del nome dell'edificatore. I locali situati nella parte originaria della roccaforte non vantano decorazioni di alcun genere mentre nelle sale del sopralzo i soffitti sono intagliati. All'interno del palazzo, al piano terreno, c'è un grande salone con la volta tutta affrescata con motivi mitologici. Al primo piano vi è invece una sala con un camino adornato con sculture di pregevole fattura. Le altre sale sono completamente affrescate e i soffitti in legno intarsiato sono di grande effetto. Alcune opere risalgono all'inizio del 1500, altre alla fine del 1700. Si tramanda che truci vicende siano avvenute tra queste mura e anche se la fantasia popolare, con il passare del tempo, ha aggiunto molto, se pur degli avvenimenti erano realmente avvenuti. Al termine della scala che porta ai sotterranei si apriva un profondo pozzo sul fondo e sulle pareti del quale erano infisse delle lame taglienti rivolte verso l'alto. Lì dentro si poteva facilmente cadere semplicemente ponendo i piedi al di fuori di un tracciato prestabilito; un passo incauto poteva infatti rompere l'equilibrio del coperchio della botola che ruotava sopra un perno centrale. L'apertura di questo pozzo è stata chiusa soltanto durante l'ultimo conflitto mondiale. Ogni anno, la prima domenica di settembre, ricorre la tradizionale festa della Sacra spina, la famosa reliquia che fu donata al marchese Galeazzo Pallavicino, il 30 maggio del 1476, dall'Arcivescovo di Bologna Francesco Cotogni con il permesso di esporla alla venerazione dei fedeli. Dal 1952 la reliquia appartiene alla chiesa parrocchiale di Santa Maria in Campagna, nel comune di Torre Pallavicino. Il palazzo è tuttora proprietà della famiglia Barbò.