mercoledì 30 aprile 2014

Il castello di mercoledì 30 aprile






BUSSI SUL TIRINO (PE) – Castello Cantelmo-Medici

Notizie certe si hanno a partire dal 1092, momento storico in cui alcuni stabili del castello di Bussi erano posseduti dal monastero di San Benedetto in Perillis. La storia di Bussi sul Tirino è legata indissolubilmente al fiume Tirino, conosciuto come il più limpido d'Italia. Nel periodo altomedievale fu proprio il fiume a favorire principalmente gli insediamenti umani e, in particolare, quello di un ordine monastico che vi costruì la chiesa benedettina di Santa Maria di Cartignano, ormai in rovina, il cui primo documento conosciuto riporta al 1021. Santa Maria di Cartignano fu cella dell'abbazia di Montecassino, Grancia della chiesa di San Liberatore a Maiella e appartenne anche ai Celestini. Nel 1265 scesero in Italia con Carlo D'Angiò conte di Provenza i Cantelmo, che furono ricompensati con il feudo di Popoli. Nel 1377 Restaino Cantelmo comperò da Niccolò Alunno D'Alife il castello di Bussi con gli annessi diritti. I Cantelmo regnarono a Bussi fino al 1579, anno in cui Ottavio Cantelmo, duca di Popoli, trovandosi in difficoltà economiche, vendette il castello di Bussi a Pietro Pietropaoli, barone di Navelli, per diecimila ducati, con regio assenso del 22 Dicembre delo stesso anno. Venti anni dopo, lo stesso barone Pietropaoli cedette il castello di Bussi per ventiduemila ducati al Granduca di Toscana Cosimo de' Medici, principe di Capestrano, che pose tra i suoi titoli quello di signore della Baronia di Carapelle e della terra di Bussi. Bussi entrò a far parte del Regno delle Due Sicilie nel 1743 con Carlo III di Borbone, dato che Maria Luisa, figlia di Gian Gastone Dei Medici, non potendo succedere al padre sul trono d'Etruria, fu costretta a cedere Bussi come stato alloidale. Nel 1806, caduto Ferdinando IV di Borbone figlio di Carlo III, venne eletto re di Napoli Giuseppe Bonaparte che decretò l'abolizione della feudalità ed ordinò la divisione della propretà feudale in tre parti: al demanio comunale, agli ex feudatari e agli ex vassalli. Nel XVI secolo, ai margini del borgo medievale e presumibilmente sul sito di un preesistente castello, si insediò il palazzo-castello mediceo, la cui attuale configurazione, di proprietà della famiglia De Sanctis, è frutto di numerose modifiche. L'edificio, a pianta rettangolare con corpi di fabbrica racchiusi attorno ad un elegante cortile, è munito a Nord di un'alta torre quadrilatera coronata da beccatelli. L'ingresso all'interno del cortile, è segnato da un pregiato portale con arco inquadrato da bugne di dimensioni eterogenee, all'esterno sono presenti alcune finestre a bifora di pregio. L'interno del palazzo è ricco di arredi d'epoca, di tele, di camini, nicchie, soffitti a cassettoni e volte. Lo stato di conservazione è discreto nonostante i rimaneggiamenti subiti nel tempo. In seguito al recente terremoto, l'edificio ha riportato gravi lesioni alle strutture portanti che lo hanno reso inagibile.

Foto: una cartolina postale, mentre la seconda immagine è presa dal

martedì 29 aprile 2014

Il castello di martedì 29 aprile






VALFABBRICA (PG) – Castello di Schifanoia

Il castello di Schifanoia, detto anche Villa, sorge in mezzo ad alberi secolari e fertili terreni, vicino alla cittadina di Valfabbrica. L’attuale denominazione deriva da “schivar la noia”, toponimo usato anche in altre dimore del sei-settecento, per sottolineare che questi luoghi dovevano essere di vacanza e di riposo. Edificato nel XIV secolo, le sue prime notizie risalgono al 1377. Con sicurezza nel settembre del 1486 il castello era proprietà di Bernardino Ranieri, ed essendo quest’ultimo molto attivo politicamente a Perugia, sempre alleato con la famiglia degli Oddi contro le cruente lotte con la famiglia Baglioni, il castello subì le sorti politiche del suo proprietario. Saccheggiato e semidistrutto nel 1480, stessa sorte ebbe nel 1491, perché qualche sera prima il giovane figlio di Bernardino entrò dentro Perugia a notte fonda, uccidendo quanti più partigiani dei Baglioni trovò. Immediata la reazione della famiglia perugina, ovviamente, che, arrivata con oltre seicento armati sotto il castello, scaricò “due torrioni, e aperte le mura della fortezza in più luoghi, bruciò tutto il rimanente…”. Con la conquista dei Baglioni il castello fu lasciato dai Ranieri, che intanto si erano rifugiati ad Urbino, e passò un quarto di secolo prima che vi poterono far ritorno. Nel XVI secolo con Filippo Ranieri si riedificò il distrutto castello, e si unirono alla proprietà diversi terreni, ma un secolo dopo, nel 1624, la proprietà passò alla dei Della Penna, poiché Francesca Ranieri, l’ultima erede, andò in sposa al capitano Paolo Della Penna. Nel XIX secolo apparteneva alla famiglia Oddi-Baglioni, e successivamente pervenne alla famiglia romana dei principi Torlonia, oggi ancora proprietaria. Don Giulio Torlonia vi organizzava battute di caccia a cavallo, alle quali partecipavano molti membri di famiglie importanti. Erano gli anni in cui, in estate, la nobiltà romana amava trascorrere le vacanze nelle proprie tenute umbre. Alla fine del XX secolo il castello venne dotato di una conduttura per l’acqua potabile, e, oggi, pur se disabitato, si presenta ancora maestoso e imponente come una volta, con torri coperte, cortile interno e ampi saloni nel palazzo signorile. L'edificio ha subito numerosi interventi di conservazione. Della struttura originaria sono visibili la corte interna, qualche tratto delle mura e due torri.

lunedì 28 aprile 2014

Il castello di lunedì 28 aprile






VALFABBRICA (PG) – Castello di Giomici

Giomici consiste, fondamentalmente, del castello omonimo, che si trova a 567 mt. s.l.m., e di poche abitazioni (case coloniche) circostanti. È localizzato sulle colline tra Valfabbrica e Casacastalda e si affaccia sulla valle del fiume Chiascio, proprio sopra dove dovrebbe svilupparsi il lago artificiale generato dalla diga di Valfabbrica. Giomici formava un tempo assieme a Biscina, Caresto, Coccorano ed altri, il sistema difensivo di Gubbio al confine con Perugia. Per questo il borgo ha avuto un ruolo di primaria importanza nella storia tra XIII e XIV secolo, ed è stato teatro di scontri e continue conquiste e riconquiste da parte delle città-stato vicine. Il castello di Giomici, che prende il nome da Glomisso - il nobile tedesco vassallo di Ottone III di Sassonia - che intorno all’anno 1000 ne fu il primo signore e forse il fondatore - viene più volte nominato in numerosi documenti e diplomi  storici medioevali conservati presso gli archivi di Gubbio; in questi documenti Federico Barbarossa, Arrigo IV e Ottone IV assegnano Giomici alla città stato di Gubbio. Il castello di Giomici è nominato varie volte anche in documenti medioevali, per la prima volta nel 1160 da Federico I, detto Barbarossa, quando furono stabiliti i confini tra Assisi e Gubbio; questo poiché nella guerra tra il 1140 ed il 1160 fra le due città-stato, Giomici era stato conquistato e saccheggiato da Assisi. Con il citato documento, Barbarossa, annetteva Giomici nuovamente a Gubbio. Giomici è nuovamente nominato in documenti di Federico I nel 1163, di Arrigo IV nel 1191 e da Ottone IV nel 1211. Verso la metà del XIII secolo, Giomici era annesso all’abbazia di S. Donato di Pulpiano, nel territorio di Gubbio, a seguito di una donazione di Federico I, il quale con un documento del 1163 riceveva la suddetta abbazia sotto la sua protezione. Ottone IV il 14 novembre del 1211 donava alcuni castelli, tra i quali Giomici allo stato di Gubbio. Nel giugno del 1240, a fianco del vescovo di Gubbio, l’abate del convento di S. Donato, cedette a Monaldo di Suppolino Castrum Glomisci eius curiam totam, com hominibus servitii et utilitatibus. Dopo la guerra con Perugia, nell’aprile del 1258, Gubbio comprò da Monaldo di Suppolino un palazzo ed una torre all’interno del borgo di Giomici. Nonostante questa vendita, i discendenti di Monaldo da Suppolino mantennero alcuni possedimenti all’interno del borgo, e in diversi documenti del tempo, sono nominati come ‘Conti di Casa Castalda e Giomisci’. Durante le guerre tra Perugia e Gubbio, Giomici "passò di mano" varie volte, ma alla fine rimase per secoli annesso a Gubbio. Vi fu dunque un periodo di dominio da parte dei conti Bigazzini di Coccorano (di origine longobarda) e poi passò ai Gabrielli di Gubbio, che lo mantennero per diverse centinaia di anni. La giurisdizione invece passò per un po' ad Assisi ma poi ritornò sempre a Gubbio. Ser Guerriero di Gubbio racconta, nella sua cronaca, il seguente fatto che nel 1378 successe a Giomici: "… in quell’anno Senso de’Gabrielli prese il possesso di Giomici. Petruccio de Villamaiana si era rifugiato nella torre più alta e non voleva capitolare, allora fu abbattuta la torre e con lei Petruccio che cadde sul tetto della casa a fianco…". Il soldato eugubino Petruccio, dopo circa due mesi di assedio riuscì a fuggire indenne e a rientrare a Gubbio. Il 20 agosto 1380 il Comune di Gubbio, memore del valoroso soldato, volle indennizzarlo delle armi e delle poche cose perdute con un premio di 15 fiorini d’oro. Nel 1419, un'incursione di Braccio da Montone ne danneggiò le mura. Comunque Giomici fu talvolta occasione di lieti eventi e tra questi ricordiamo quando Francesca Baglioni, sorella del famoso Gian Paolo Baglioni Signore di Perugia, il 2 giugno 1515 dopo il suo matrimonio con Filippo di Bernardino Ranieri, Conte di Schifanoia, fu condotta dallo sposo a Giomici, altro castello in proprietà dei Ranieri, dove trascorse la luna di miele. Nel Rinascimento Giomici seguì il destino di Gubbio e per circa 250 anni fece parte del Ducato di Urbino, sotto la Signoria dei Duchi di Montefeltro, di cui ne costituiva l’estremo confine a Sud. Nei secoli successivi la gran parte del Castello rimase sempre in proprietà di importanti famiglie nobili eugubine ed in particolare dei Marchesi Mosca, Benamati e Ranieri per eredità dei Conti di  Coccorano che storicamente possedevano 1/6 del castello e del territorio di Giomici; altre famiglie, Giappichini e Cenci, possedevano alcune abitazioni. Verso la fine del 1700 il Castello di Giomici ed i terreni annessi di circa 600 ettari divennero di proprietà dei Vagni, una ricca famiglia locale le cui origini si possono far risalire fino al 986, quando un certo Obizzo Vagni era proprietario di un castello con il quale aiutò Arduino d’Ivrea a combattere Arrigo. Tra i Vagni troviamo illustri personaggi nel campo letterario e scientifico, ma anche nell’esercito e nella chiesa.  Nel 1807 un ramo della famiglia Vagni si trasferì nel castello, nella ex casa dei Marchesi Benamati, e vi abitò stabilmente. Il Beneficio parrocchiale della Chiesa di S.Michele Arcangelo possedeva in Giomici, oltre che la chiesa, due fabbricati. Il borgo fortificato divenne successivamente un importante centro agricolo ove abitato stabilmente da circa 30 persone dedite soprattutto all’agricoltura ed agli allevamenti zootecnici. Negli ultimi 40 anni la famiglia Balestra ha acquistato 4 fabbricati nel castello ristrutturandoli adeguatamente. Gli attuali proprietari Vagni e Balestra hanno conservato l’ambiente e le tradizioni, trasformando il castello in luogo di ospitalità. Nell’abitazione di residenza della famiglia Balestra si conservano gli affreschi degli antichi Conti di Giomici, Rinaldo e Ugolino II. Recentemente il castello è stato dichiarato di interesse storico-culturale e vincolato ai sensi della L.M. n° 1089/39. A conclusione di questa sommaria carrellata sulla storia del castello, c’è un dettaglio, abbastanza singolare: infatti per quanto possa sembrare strano il nome del Castello, per come è riportato nei documenti degli archivi storici e nelle mappe medioevali, negli ultimi 1000 anni, ha cambiato la propria denominazione per più di 20 volte: GLOMISSO, GLOMISCO, GLOMISCIO, GLOMISCHO, GLOMISIS, GLOMISCI, GLOMISI,GLOMICE, CHIOMISCI, CHIOMISCIO, GHYOMISTI, GLOMISCHI, IOMI, GIOMMEI, GLOMESI, CHIOMISCE, GOLINISCIO, GLOMESCIM, GIOMISI, JOMISCIO, JOMICE, GIOMESCI, GIOMISCI, GIOMICI. Il castello è caratterizzato da una torre merlata e da una serie di bifore e monofore. Altri link consigliati: http://www.mondimedievali.net/castelli/umbria/perugia/giomici.htm, http://www.agriturismodeaumbria.com/page5.htm, http://www.umbriaonline.com/article_820.phtml, http://www.itinerari.regioneumbria.eu/default.aspx?IDCont=200156
in più, è su Facebook con questa pagina: https://it-it.facebook.com/pages/Giomici-Castle-Horses/481626831861089
Fonti: http://www.ilcastellodigiomici.it, http://www.giomici.com, http://it.wikipedia.org
Foto: da www.residenzedepoca.it e di Grifo su http://rete.comuni-italiani.it


sabato 26 aprile 2014

Il castello di domenica 27 aprile






VEROLANUOVA (BS) – Castello Merlino

Risalente alla fine del XII secolo, è la più antica residenza della famiglia Gambara in Verolanuova, collocata su un'altura che emerge dalla campagna e che un tempo era circondata da un fossato. Il Catasto napoleonico ci tramanda una pianta ad U dell'edificio che fu però stravolta da interventi dell'Ottocento e del Novecento. Tracce dell'esistenza del ponte levatoio sono evidenti con le feritoie nella facciata, dove si notano ancora oggi gli alloggiamenti per i bolzoni (arcieri, sentinelle). Sul portone lo stemma in pietra della famiglia Gambara, costituito da un gambero sormontato dall'aquila incoronata. Il nervoso e ricco stemma in pietra sopra la porta, vero e proprio capolavoro della scultura quattrocentesca, è coronato da ben due cimieri e contornato dal motto (spesso contraddetto nei fatti): LARGA MANVS - FIDVM PECTVS - LINGVA INSCIA FALSI. E' il ricordo di Brunoro I che volle dedicare alla moglie Ginevra il forte maniero intitolandolo a Merlino, il mitico mago dei poemi cavallereschi. Varcata la soglia, si incontra sulla parete destra dell'androne un grande stemma in pietra contornato dalla collana dell'Ordine di S. Michele: si riferisce a Nicolò I Gambara che fu capitano di Luigi XII di Francia e dal quale ricevette l'ambito riconoscimento. Nel cortile si trova una vera da pozzo in pietra di Botticino, decorata con uno stemma bipartito Gambara-Maggi, che ricorda il matrimonio di Lucrezio II con Giulia Maggi o di Nicolò II con Barbara Maggi (i due fratelli sposarono due delle quattro figlie del ricchissimo Scipione Maggi). Nel 1463 nacque a Castel Merlino la Beata Paola Gambara. All'interno della parte antica dei fabbricati si trovano due camini monumentali della prima metà del Cinquecento: il primo testimonia il matrimonio tra Lucrezio I Gambara con la marchesa Teodora Pallavicini di Zibello e Roccabianca (1532) ed il secondo il matrimonio dello stesso Lucrezio con Taddea Dal Verme. Quest'ultima, rimasta vedova, sposò Giberto Borromeo che era rimasto vedovo di Margherita Medici, sorella di Papa Pio IV e madre di S. Carlo Borromeo, e portò nel palazzo di Milano i due piccoli Lucrezio (n.1537) e Nicolò (n. 1538) che crebbero con il giovane San Carlo (n. 1538). Finito il dominio dei Gambara, il castello è passato a proprietà private. Sede della Fondazione "Morelli", l'ultimo proprietario che l'ha lasciato in dono, con le sue proprietà, per l'istituzione della stessa, ospita un asilo nido. Di quel che fu un solido baluardo feudale abbiamo oggi una versione cinquecentesca. La merlatura, che lo caratterizzava è scomparsa in seguito a rifacimenti (dal Pizzafuoco nel '500). Ha un profondo fossato, muratura a scarpa e cordolo in laterizio lavorato a toro che caratterizza tante nostre architetture del cinquecento.

Foto: da www.verolanuova.com e di Simona90 su www.flickr.com


Il castello di sabato 26 aprile






FOLIGNO (PG) – Castello di Scòpoli

Fra i più importanti segni del passato, che sono rimasti nella Valle del Menotre sono da ricordare i castelli costruiti in varie epoche e per necessità diverse: uno di quelli meglio conservati è a Scopoli. Il toponimo appare per la prima volta nel 1072, in una carta nella quale il conte di origine longobarde Ugolino di Uppello dona questo suo possedimento al monaco Mainardo, suo parente e fondatore dell'abbazia di Sassovivo, morto nel 1096. Nel corso dei secoli, Scopoli venne quasi costantemente confermato agli abati di Sassovivo, che amministrando con mitezza i loro beni, diedero la possibilità ai residenti di migliorare considerevolmente le loro condizioni. Il castello fu uno dei capisaldi dei monaci dell’Abbazia di Sassovivo, in quanto allo stesso erano sottoposti i paesi di Pale, Sostino, Cerrito, Casale, Acqua S. Stefano, Cifo, Volperino, Cupigliolo, Pisenti, Polveragna e Fraia. Il primigenio villaggio, occupato da pastori e da celle monastiche, venne affiancato da un castello nel 1460, costruito sempre grazie ai monaci della vicina abbazia. I lavori, iniziati nel 1458, furono terminati due anni dopo, come attesta la data nell’incisione sopra il ponte levatoio, accompagnata da due stemmi. La stessa incisione documenta che, sebbene le mura del castello furono volute dal Comune di Foligno, merito principale di tale costruzione fu dell’abate di Sassovivo Tommaso. Con la sua cinta muraria, bastioni, torre mozze e circondato da un fiume, l’edificio aveva un carattere difensivo, poiché ubicato in un territorio di confine tra il Comune di Foligno e il Ducato di Camerino. Per quanto riguarda i due stemmi centrali posti sulla stessa pietra, quello di sinistra con tre monti e una croce è il simbolo del monastero di Sassovivo, in quanto lo stesso è presente nel chiostro dell’Abbazia risalente al 1314, mentre quello di destra con su rappresentata una scala con in cima una testa d’aquila ed una di leone con ai piedi una stella, è lo stemma dell’abate Tommaso di Paolo da Foligno, anche questo posto nel 1442 a Sassovivo, sul sepolcro del Beato Unno. Anche i Trinci del Comune di Foligno, discendenti diretti del conte Ugolino, finanziarono la costruzione del castello. Tale costruzione, nei villaggi della valle, era una necessità non solo per raccogliere, in tempo di pericolo, le famiglie, ma anche per salvaguardare i generi di prima necessità e gli animali domestici, fonte di alimentazione e indispensabili per i lavori nei campi. Il castello veniva gestito con un regolamento che stabiliva non solo la normale manutenzione, ma anche i lavori straordinari, di restauro, la responsabilità del custode, la conservazione delle armi. Era dunque un mezzo di difesa e non già di dominio e di forza. Con il passare degli anni esso perse però la sua funzione di baluardo contro le incursioni delle truppe di confine, fino a che, verso la fine dcl XVII secolo venne abbandonato. Da un censimento fatto alla metà del 1600, i1 Paese di Scopoli risultava costituito da 30 famiglie e 186 anime. Tutto il comune contava all’epoca 1210 abitanti. Del castello, circondato ancora dal fossato, si possono ancora ammirare le mura e le torri. Vi si entra attraverso un arco a tutto sesto decorato a beccatelli e, nei tempi passati, dotato di ponte levatoio. Strade secondarie permettono di girare attorno all'edificio fortificato, offrendo la possibilita' di ammirarlo in tutta la sua imponenza. Attualmente parte delle sue mura sono incluse in quelle della Chiesa di S. M. Assunta. Dopo il terremoto del settembre 1997, sia il castello che la chiesa parrocchiale sono stati diligentemente ristrutturati e riconsegnati all’ammirazione del visitatore. Oggi l'edificio è destinato ad ospitare il "Museo d'Arte Moderna del Divenire".


Foto: entrambe dal sito www.iluoghidelsilenzio.it

giovedì 24 aprile 2014

Il castello di venerdì 25 aprile







BENTIVOGLIO (BO) – Castello di Ponte Poledrano

Sorse tra il 1475 e il 1481 nel periodo di massimo splendore della signoria di Giovanni II Bentivoglio (signore di Bologna dal 1463 al 1506), ampliando la già esistente rocca fatta costruire dal Comune di Bologna nel 1390 e detta del Poledrano, dal nome della località Ponte Poledrano adiacente al Navile (il termine è dovuto al passaggio di puledri -"poledri"- sul ponte del canale Navile). La rocca fu costruita con fini strategici: nel torroncino vi erano infatti la campana d'allarme e il braciere per le segnalazioni con Bologna e altri luoghi. Nel 1441, Annibale I Bentivoglio fu investito da Niccolò Piccinino, duca di Milano, della turris Ponti Poledrani, innalzata circa cinquant’anni prima dal Comune di Bologna, insieme ai campi circostanti e a un mulino. Nel 1456, il suo successore Sante ampliò e restaurò la torre, aggiungendo una loggia e due stanze; tre anni dopo, l’edificio fu visitato da Pio II durante il viaggio di rientro dalla Dieta di Mantova. Grazie alla nuova costruzione concepita nel 1480 circa da Giovanni II, cugino e successore di Sante, Ponte Poledrano divenne un luogo di delizia, la più amata casa di campagna della famiglia Bentivoglio (dopo il Palazzo di città di strada San Donato), organizzato attorno a un cortile quadrato: pur ingentilito e dotato di nuovi confort, l'edificio non perse il suo carattere castellano, del resto alla moda tra il patriziato bolognese per tutto il rinascimento. A differenza di molte ville dell’epoca, che, pur mantenendo torri e merlature, andarono generalmente abbandonando un’effettiva funzione difensiva, il castello di Bentivoglio conservò l’uso delle antiche tecniche dell’architettura militare: il fossato era largo 25 metri e il complesso era diviso in comparti separati che potevano essere isolati progressivamente in caso di assedio, rendendo l’antico nucleo della fortezza un rifugio quasi inespugnabile. Ciò è giustificato verosimilmente dal fatto che il castello si trovava in un’area di confine, e forse anche dall'incerta posizione politica dei proprietari. Il motto Domus jocunditatis affrescato lungo le pareti del cortile interno che ancora oggi si può intravedere, seppur rovinato dal tempo, indicava la destinazione dell'edificio per brevi soggiorni e adatta ai divertimenti della corte bentivolesca. L'edificio è a pianta quadrata, dalle finestre ampie, dal vasto e luminoso cortile, dalle accoglienti stanze con annessi servizi e stalle. I caratteri sono quelli di una tipica costruzione rinascimentale, una dimora di campagna senza preoccupazioni difensive eccessive, con due ariosi porticati, stanze e corridoi semplici con vivaci decorazioni, purtroppo oggi in maggioranza perdute tranne quelle dei fiordalisi, degli stemmi e dei ghepardi. In questo castello si racconta avvenne il primo incontro tra Alfonso d'Este e la sua futura sposa Lucrezia, che durante il suo viaggio sul Navile per convenire a nozze con Alfonso fece tappa nella dimora di Bentivoglio. Qui il futuro sposo curioso di vedere la bella figlia di Papa Borgia, si introdusse durante la notte nel castello e rimase affascinato dalla bellezza di Lucrezia. Altri personaggi che il castello ha ospitato sono: Ercole I d’Este, duca di Ferrara, e il pontefice Giulio II. La caduta dei Bentivoglio avvenne nel 1506, proprio per mano di Giulio II, ma riebbero il castello grazie all'azione di Leone X. Tuttavia il castello cominciò una fase di deterioramento, tanto che l'ala occidentale divenne pericolante per poi crollare nel XVIII secolo ad opera dei nuovi proprietari, i Pepoli, che ne fecero una villa a due lati, aperta; sparirono mura e fossati mentre nel castello abitarono soprattutto famiglie bracciantili e le sue stanze ebbero le più impensate destinazioni: magazzini, concerie di pelli, ricoveri di animali. Nel 1889 la nuova proprietà Pizzardi, incaricò Alfonso Rubbiani per il restauro del castello, con l'intenzione di ripristinare l'edificio voluto da Giovanni II, dal 1889 al 1897 il Rubbiani ricostruì l'ala crollata, riedificò la cinta merlata e suddivise le stanze secondo le vecchie piante. Inventò anche numerosi particolari, come il rivellino di accesso e la scala che dal cortile conduce al piano nobile. Vennero inoltre aggiunte due statue rappresentati Ginevra Sforza e Giovanni II Bentivoglio, entrambe a opera di Giuseppe Romagnoli. Il restauro, nonostante l'impegno nella ricerca di documenti dell'epoca, ha restituito un edificio aldulterato, di marcata impronta ottocentesca. Nella Prima guerra mondiale accolse un ospedale militare della CRI. Nel 1945, durante la ritirata, le Wehrmacht fecero saltare la trecentesca torre del castello, lasciandola mutilata come oggi la vediamo. Le decorazioni interne all’edificio risultano le uniche del XV secolo a carattere profano di quest'area. I temi trattati non sono la descrizione di aristocratici e cortesi passatempi, bensì la vita nei campi e in particolare in dieci episodi dedicati alle "storie del pane". Vengono rappresentate tutte le fasi, dalla semina, al trasporto, alla battitura fino alla produzione del pane vero e proprio. Azioni assolutamente veritiere rappresentate però su di un fondale fantastico che si apre su paesaggi e natura precedendo di qualche secolo gli effetti scenografici tipici del neoclassicismo. I pilastri dipinti non fungono soltanto da divisori degli episodi ma come fittizi sostegni di un soffitto, secondo l'insegnamento già mantegnesco. Oltre alla Sala del Pane, è degna di nota anche la Sala dei Cinque Camini. La cappella aveva importanti affreschi, tornati alla luce con gli interventi del Rubbiani. Sono ancora riconoscibili gli "Apostoli", "l'Eterno" sulla volta, i "simboli degli Evangelisti" e i numerosi "Serafini". Attualmente l’edificio ospita i laboratori di ricerca dell’Istituto Ramazzini ed inoltre viene utilizzato per le attività culturali organizzate dal comune. Per approfondire: http://www.bentivoglioedintorni.it/castello-di-bentivoglio.html, http://www.itinerarimedievali.unipr.it/v2/pdf/D_duranti_mulini_canali.pdf

Fonti: http://www.orizzontidipianura.it/interno.php?ID_MENU=6&ID_PAGE=419, brano tratto da "Il Castello di Bentivoglio storie di terre,di svaghi,di pane tra Medioevo e Novecento" a cura di Anna Laura Trombetti Budrisi, http://it.wikipedia.org, http://www.comune.bentivoglio.bo.it/, testo di Maria Teresa Sambin su http://www.villebolognesi.it

Foto: di Claudio Pedrazzi su http://www.panoramio.com e le altre due di Maria Teresa Sambin su http://www.villebolognesi.it

Il castello di giovedì 24 aprile






SAN CASCIANO IN VAL DI PESA (FI) – Castello in frazione Fabbrica

Il toponimo Fabbrica deriva dal latino faber ed indica quindi la passata esistenza di una “fucina” di un certo rilievo. L'edificio è costituito da una villa edificata sui resti di un castello la cui prima menzione risale a due documenti del 1013. Il castello era di proprietà della famiglia degli Scolari nel 1098, quando Uguccione degli Scolari lo donò al vescovo di Firenze. Nel 1269 alcune proprietà del castello furono danneggiate dai Ghibellini. Nel 1298 la proprietà apparteneva ancora al vescovo fiorentino, ma successivamente venne acquistato dai Buondelmonti, che all'interno del borgo di Fabbrica già possedevano delle abitazioni. La loro proprietà durò fino all' estinzione del casato nel XIX secolo. Passò per eredità alla famiglia Rinuccini dai quali pervenne ai Corsini, cui rimase fino al 1920. Successivamente fu proprietà dei conti Piatti Del Pozzo e della famiglia Vicini, cui appartiene tuttora. Oggi è sede di una azienda agricola che deve il suo nome all’adiacente chiesa dedicata a S.Andrea la cui facciata è coronata da un frontone a curve spezzate e due pinnacoli piramidali risalenti alla fine del XVIII secolo. Accanto alla chiesa si trova l’oratorio, forse edificato sul luogo della chiesa romanica; in facciata è murato lo stemma dei Buondelmonti. Il castello era circondato da forti mura che occupavano tutta la sommità del monte nel cui centro sorgevano il palazzo dei Signori, i magazzini, le cantine, i granai e la piccola ma incantevole chiesa della contrada. Intorno al complesso vi erano le case dei coloni. Smantellato in parte dai Ghibellini dopo la battaglia di Montaperti, il castello fu con il tempo trasformato in villa costruita intorno al cassero e a due torri. L’azienda, oggi La Villa, ancora nel secolo scorso conservava le due grandi torri dell’antico castello, ma i bombardamenti dell’ultima guerra le hanno distrutte. Ad oggi, della cinta muraria, rimangono l’antico torrino cilindrico ed i resti di una porta fortificata ad un lato del viale d’accesso.Nonostante i mutamenti e le distruzioni, emerge ancora l’antica imponenza di un luogo carico di storia e di prestigio. Dal punto più alto della tenuta, seguendo l’andamento della collina, si snodano gli altri fabbricati e le antiche cantine, interamente scavate all’interno del colle e disposte in file parallele, dove il vino, in silenziosa oscurità, si ingentilisce nelle botti e nelle piccole barriques di rovere. Fuori dalle mura del castello si notano numerose abitazioni che per la loro edificazione hanno usato materiale edilizio medievale. Ai piedi del colle si vede il podere Mercatale, costituito da due case coloniche, che come rivela il toponimo era utilizzato come sede del mercato che i Buondelmonti avevano organizzato sulla piana del fiume Pesa.

Foto: di Vignaccia76 su http://it.wikipedia.org e di Gian Paolo Pruneti su http://www.panoramio.com

mercoledì 23 aprile 2014

Il castello di mercoledì 23 aprile





MONTIERI (GR) – Castello di Travale

Le mura di Travale costituiscono il sistema difensivo dell'omonimo borgo del territorio comunale di Montieri. La cinta muraria fu costruita dai Pannocchieschi a partire dal XII secolo, con alcune successive modifiche e ristrutturazioni. Nell'insieme, delimitava interamente il borgo castellano che si stava sviluppando in quell'epoca. Di probabile origine longobarda, i Pannocchieschi, che conosciamo al seguito del Marchese Alberto " Longobardo " signore della Marca Toscana, si erano fortemente insediati su quei vasti territori fra Massa e Siena, mentre alcune loro famiglie, vivendo entro le mura di queste città, prendevano parte attiva e spesso predominante al loro governo. Potenti e prepotenti non è azzardato affermare che furono causa di parecchie guerre fra i vari Comuni del territorio compreso fra Volterra, Siena e Massa, mentre ebbero anche fiere inimicizie e lotte fra i diversi rami della loro famiglia, lotte che naturalmente si ripercuotevano sulla sorte dei luoghi dove dominavano o sulle Città che li ospitavano. Travale compare nella storia quando il Vescovo di Volterra Alboino investì i suoi congiunti Pannocchieschi di alcune terre prossime a Montieri e delle possessioni di Gerfalco e di Travale sulla fine del secolo IX. La fama di questo castello il cui nome ricorre spesso nelle cronache, specialmente dall'XI a tutto il XIII secolo, non è dovuta tanto alle argentiere che si trovavano nel suo territorio, (nella parte più prossima a quello di Montieri, sui fianchi dell'odierno Montemurlo), quanto, appunto, ad essere esso in dominio di una famiglia comitale ardita e potente, quella dei Pannocchieschi. Dedito allo sfruttamento delle sue miniere molto attive, dalle quali sorsero capaci maestranze ed uomini accorti nell'industria e nei traffici minerari, il territorio di Travale venne spesso travolto in contese dall'irrequietezza dei suoi Conti, sempre pronti a cogliere ogni occasione per aumentare il proprio territorio e la propria potenza. È del 2 luglio 1215 uno strumento che parla dell'accomodamento di un'altra lite fra i vari membri della famiglia con gli Aldobrandeschi di S. Fiora; strumento firmato nella chiesa di S. Michele in Travale. Nel 1219 il conte Ranieri Pannocchieschi acquistò Elci, estendendovi il suo potere. E dovendo poco dopo partire dall'Italia raccomandò a Siena la tutela della sua terra dove lasciò il figlio Emanuele. Nel 1250 un altro Pannocchieschi, che con la moglie fu tutore del ricordato Emanuele signore di Travale, con strumento del 31 marzo ricevette in donazione da Raniero Gottobaldo dei conti Alberti signori di Monterotondo, vaste terre anche in quel contado. Intanto i Pannocchieschi continuarono a trafficare più che mai con Massa e con Siena. Abitando in Massa guelfa, essi ghibellini accaniti, non tralasciavano alcuna occasione di intromettersi negli affari interni della città, tutte le volte che gli interessi della loro parte fossero minacciati, schierandosi arditamente contro la città che li ospitava, così che Massa li bandì e confiscò i loro beni. Ma essi vennero appoggiati a Siena, cui diedero modo di intromettersi negli affari massetani. Nel 1263 Travale, con tutti gli altri castelli dei Pannocchieschi, si pose decisamente sotto la tutela senese e si obbligò a far guerra ai guelfi di Firenze, Lucca, Massa. Per questo patto e per vendicare i Pannocchieschi banditi, Siena intervenne energicamente e costrinse Massa ad esiliare quelli dei suoi cittadini che furono nemici dei Pannocchieschi. I numerosi esiliati si rifugiarono a Prata e riuscirono a trarre dalla loro anche il conte d'Elci. Questi fatti furono causa della guerra che scoppiò fra le due città (1275). Prata fu stretta d'assedio dai senesi e dovette cedere: e solo l'anno seguente (1276), dopo la pace, i Pannocchieschi poterono rientrare in Massa. Nel 1280 seguitando le lotte intestine tra guelfì e ghibellini, avvenne che i conti d'Elci mossero contro il castello di Fosini e vi uccisero il conte Guido. Allora Nello Pannocchieschi di Pietra, chiesti rinforzi a Siena che vantava già diritti su Fosini, e avute truppe anche da Massa in forza di patti esistenti, raggiunse Travale e si gettò poi sul castello d'Elci, ardendone e saccheggiandone il contado. Nuovi patti, nel 1317, 1322, 1329, rinnovarono il legame con Siena, assicurando al borgo un lungo periodo di tranquillità fino al disastroso terremoto del 1502. Verso la metà del Trecento, le mura furono ulteriormente fortificate dai Senesi, con la costruzione del cassero. Gran parte della cinta muraria e il cassero furono distrutti durante l'assedio del 1554 condotto dalle truppe granducali di Cosimo I de' Medici; questo evento determinò il definitivo passaggio di Travale nel Granducato di Toscana. Le mura, delle quali è ben ravvisabile la pianta a forma circolare, si conservano soltanto in alcuni tratti, a causa delle gravi distruzioni avvenute durante tale assedio. È ancora visibile un tratto dell'antica cortina muraria medievale rivestita in pietra a delimitare parzialmente la parte meridionale del borgo; in questo tratto sono ravvisabili anche i ruderi di una torre che, probabilmente, costituiva il cassero trecentesco. Sul lato settentrionale si è ben conservata la porta di Travale, che costituiva l'unica porta di accesso al borgo. Il castello deve la sua notorietà ad un antico documento in volgare, che ha interessato gli studiosi delle origini della lingua italiana. Si tratta di un testo redatto nel secolo XII che raccoglie le testimonianze relative ad una controversia per il possesso del castello di Travale tra Galgano vescovo di Volterra e Ranieri detto Pannocchia: tra i testi, un certo Pietro, soprannominato Pochino, riferì che tale Manfredo da Casamagi, località compresa nel territorio di Travale, era costretto a compiere contro voglia servizi di guardia (guaita) sulle mura del castello di Travale e che perciò si sarebbe espresso nei termini seguenti, riportati fedelmente dall'estensore dell'atto: "guaita, guaita male, non mangiai ma' mezo pane", alludendo forse alla mancanza di ogni contropartita per il duro servizio prestato; abbiamo in tal modo tramandato un brano di “parlato” colorito da vivide espressioni del volgare degli umili. Per approfondire consiglio il seguente link: http://www.occxam.it/Storia/Homestoria/Dal1700al1900/Travale.htm


Foto: di alienautic su http://it.wikipedia.org



martedì 22 aprile 2014

Il castello di martedì 22 aprile






MONEGLIA (GE) - Castello di Villafranca


La fortezza-torre di Villafranca era un antico insediamento difensivo e d'avvistamento, voluto dalla Repubblica di Genova nel XII secolo (1130), situata alle prime pendici ad est dell'abitato odierno di Moneglia, alla sinistra del torrente Bisagno. La fortezza, più piccola e meno importante rispetto al secondo castello cittadino di Monleone, subì diversi rimaneggiamenti nel corso del XIV e XV secolo per i forti contrasti tra la repubblica genovese e i possedimenti confinanti appartenenti alla famiglia Malaspina. La pianta, all'incirca pentagonale, seppur fortemente irregolare per l'andamento del terreno, ha una base a scarpa molto accentuata, di contenimento del terrapieno; sopra il cordolo si erge il corpo superiore, con camminamenti perimetrali e garitte circolari ai vertici, di cui solo una è in buono stato. Al centro del terrapieno si staglia la torre quadrata, in muratura, in origine presumibilmente composta da due piani, con terrazza di copertura dal parapetto aggettante poggiato su beccatelli. Rinsaldato ed ampliato verso la metà del Cinquecento, fu nell’ Ottocento proprietà della famiglia di Felice Romani e successivamente del senatore Luigi Burgo che ne fece una splendida abitazione museo, attraverso un lavoro di restauro. Ma ulteriori e più pesanti danneggiamenti si verificarono a causa dei bombardamenti durante il conflitto bellico della seconda guerra mondiale. Rimasto quasi completamente distrutto, il castello fu acquistato dal Comune di Moneglia e, grazie ai fondi CEE, venne sottoposto nel 1988 a restauro conservativo e restituito a nuova vita. La recente messa in sicurezza dell'edificio ha permesso l'apertura al pubblico dell'adiacente parco, che orna con il suo verde le antiche rovine storiche e offre una splendida vista panoramica su tutto il Golfo di Moneglia, da Punta Rospo a Punta Baffe. Attualmente nelle vicinanze dei ruderi dell'antica fortezza sorge una villa che presenta con essa analogie architettoniche. Messa in sicurezza con parziali interventi di restauro, la torre ospita una sala per conferenze, con accesso a levante dal piano terra, posta sotto l'area terrazzata. Sulla destra si vede la vetrata recintata che dà luce alla sala, dove in origine doveva trovarsi l'accesso sul lato nord, ormai chiuso. Una scaletta di ferro conduce sulla parte diroccata soprastante. Il castello è oggi sede del Centro Studi Felice Romani che si occupa della raccolta di manoscritti, libri, cimeli inerenti la vita e l’opera del più importante librettista dell’ Ottocento musicale italiano ed europeo, oltre a promuovere iniziative che ne incentivino la conoscenza e la ricerca.
http://it.wikipedia.org, http://www.portofinocoast.it/arte-e-cultura/arte-e-cultura-ita.html,
http://www.sullacrestadellonda.it/torri_costiere/torrimoneglia.htm, http://www.terrediportofino.eu/detail.php?cat=articolo&ID=236 (a cura di Francesca Vulpani),
http://www.feliceromani.it/CentroStudi.htm

Foto: di kajmano su http://rete.comuni-italiani.it e su ontheroadinitaly.style.it

domenica 20 aprile 2014

Il castello di lunedì 21 aprile






TORRE CAJETANI (FR) – Castello Teofilatto

Conosciuto comunemente come Castello di Torre Cajetani, sorge su un’altura rocciosa (848 s.l.m.) a ridosso dei monti Ernici ed è situato in uno degli angoli più suggestivi della Ciociaria. Dall’alto dell’imponente torre medievale quadrangolare del maniero, poggiante in più punti direttamente sulla roccia e che raggiunge l’altezza di circa 19 metri, si gode di un inimitabile panorama sull’estesa vallata circostante e sul Lago di Canterno. La quiete che regna al suo interno riporta all’indietro nel tempo e fa rivivere l’antica atmosfera della fortezza feduale: il castello rappresenta ancora oggi un segno tangibile di continuità storica, un testimone incantato del Medioevo, che impressiona la fantasia del visitatore. Antica è l’origine della costruzione, sorta in epoca romana come strategica torre fortificata, in un luogo ritenuto sufficientemente inaccessibe. Venne edificata quindi sul culmine estremo del monte in pietra appenninica con materiali ricavati dallo spianamento dei luoghi, mediante l’uso di fornaci per la calce eseguito in loco per l’occasione, risulta eseguito seguendo le tradizioni costruttive della zona. Narrano le cronache del tempo che, quando San Benedetto nel 529 intraprese lo storico viaggio verso Montecassino per fondare il suo ordine, transitò nell’odierna vallata Anticolana ed in "castrum Turris pervenit”. Tra il 900 ed il 1100 il Castello appartenne alla potente famiglia romana del senatore Teofilatto, che, con il Papa Giovanni XII e con i Conti di Tuscolo, aveva larghi interessi in tutto il territorio. Teofilatto, facendone donazione alla propria figlia Marozia, lo trasformò in dimora signorile come attestano la sequenza di bifore e trifore nei piani nobili. Dopo alterne vicende, il Castello alla fine del XIII secolo diventò feudo della famiglia Caetani. L’acquisto fu voluto e sanzionato dal Papa Caetani Bonifacio VIII con la bolla "Circumspecta Sedis” del 10 febbraio 1303. Bonifacio VIII, che indisse nel 1300 il primo Giubileo della storia, utilizzò il maniero come luogo di meditazione e di lavoro. Da lì emanò le Bolle pontificie portanti il "Datum in Turri nostra prope in Anagnium”. Nel corso dei secoli successivi i Caetani ingrandirono e fortificarono il Castello, divenuto un importante punto strategico di difesa per contrastare la famiglia dei Colonna, provvedendo alla costruzione di mura perimetrali, di fossati, di ponti levatoi e di vari torrioni di difesa. Danneggiato dal terremoto del 1915, fu restaurato in seguito dalla famiglia Teofilatto, tuttora proprietaria, assumendo l’immagine attuale con merlature e ampie aperture. Dal 1987 è sede della "Domus Theophylacti Opus”, centro di studi e di cultura Medievale. Oggi il castello è tornato ad ospitare nelle proprie sale, che possono accogliere dalle 40 alle 200 persone, ricevimenti e matrimoni, ma anche conferenze e manifestazioni culturali, resi indimenticabili dall’atmosfera incantata di questo testimone della storia. Ha un sito web ufficiale: http://www.castelloteofilatto.it. In rete c’è un bel video dedicato a questo castello: http://www.youtube.com/watch?v=9UwcsMWVMAk
Fonti: http://www.comune.torrecajetani.fr.it, http://www.ciociariaturismo.it, http://www.lazionauta.it/torre-cajetani/,

Foto: da http://www.matrimonio.com e di Adriano Di Benedetto su http://rete.comuni-italiani.it

sabato 19 aprile 2014

Il castello di domenica 20 aprile





LEQUILE (LE) – Castello d’Enghien e Palazzo Principi Saluzzo

Le origini cittadine sono fatte risalire per tradizione all'epoca romana, quando si stabilì nella zona il centurione Leculo, il quale eresse una villa da cui sorse poi un villaggio. Dall'XI secolo al 1463, il casale di Lequile fece parte della Contea di Lecce e del Principato di Taranto. Nel 1291 ne fu signore Ugo di Brienne; nei secoli XIV e XV appartenne ai Bonomine, ai De Marco, ai Sambiase, ai Santabarbara e ai Marescallo. Nel 1433 Maria d’Enghien, contessa di Lecce, principessa di Taranto e regina di Napoli, lo concesse in feudo al barone Guarino di San Cesario, alla cui famiglia appartenne fino al 1531. Successivamente dal Doria, divenutone signore nel 1554, venne ceduto al Pansa; da questi alla nipote della famiglia Dell'Anna, e quindi al Graffoglietti, ai Venato, agli Imparato, ed infine ai principi Saluzzo che ne serbarono il possesso dal 1690 al 1806, data di abolizione della feudalità. Il Castello dei d'Enghien, situato nella piazza principale e già proprietà dei principi Ruffo, risale al XIV secolo e fu edificato dalla famiglia Orsini Del Balzo. Altre fonti rivelano che fu commissionato da Ugo d’Enghien. Il palazzo dei Principi Saluzzo (oggi De Palma) si presenta con ampie finestre e vasto loggiato. Notevole per i suoi vasti ambienti e per le numerose sale che lo compongono, l'attuale edificio venne probabilmente ampliato nella prima metà del XVII secolo, con oratorio nel piano superiore e una biblioteca privata che custodisce preziosi incunaboli e diverse stampe antiche pugliesi. Al piano terra è annessa una cappella dedicata a San Giorgio.
Foto: la prima è del Castello d'Enghien, fornita gentilmente da Franco de Lorenzi, mentre la seconda è del Palazzo Saluzzo su www.comune.lequile.le.it, mentre non sono riuscito a trovare alcuna immagine del Castello d’Enghien (se in futuro ne troverò provvederò ad aggiungerle al post…)

Il castello di sabato 19 aprile





LICOLA DI GIUGLIANO (NA) – Torre Sanseverino

La sua storia ha inizio in epoca romana. Il Castrum serviva allo stazionamento delle truppe dirette a Miliscola e la torre faceva parte della serie di edifici analoghi dislocati sul litorale per l'avvistamento dei Saraceni e per la comunicazione ottica tramite segnali di fumo. Appartenne poi al Duca Di Benevento, Gisulfo II, che nel 750 lo donò ai Monaci Benedettini di Cassino. Intorno al sec. XII fu annesso al monastero napoletano dei Ss. Severino e Sossio, che ne affidò l’amministrazione ad un suo delegato. La grancia funzionò come un’azienda agricola, con personale laico ed ecclesiastico, fino alla Repubblica Napoletana del 1799. I benedettini furono strenui sostenitori della repubblica e così, dopo la restaurazione di Ferdinando IV, ritornato a Napoli dopo la fuga in Sicilia, furono espulsi dal Regno dopo la confisca dei loro beni. La masseria di Torre San Severino fu alienata e, in esecuzione dei Reali Dispacci del 18 marzo e del primo maggio 1800, fu concessa all’ufficiale austriaco Giuseppe de Thurn, brigadiere di marina per la flotta borbonica. Poi fu assegnata a Don Pasquale Dentice del casale di Mugnano, su indicazione di tale Andrea Palma, delegato di Ferdinando IV. Affidato poi dal Re al Duca di San Teodoro, Ambasciatore del Regno delle Due Sicilie alla Corte di Spagna, fu venduto da questi al banchiere Filippo Micillo, che lo trasformò in una azienda agricola. Ancora oggi essa rappresenta una delle maggiori realtà produttive della zona, condotta con passione dal pronipote Enrico. Talvolta Torre San Severino apre le porte mettendo a disposizione le sue sale a chi sa apprezzarne la storia e assaporare tutta la magia del luogo. Malgrado i restauri subiti, la masseria conserva l’impianto originario: varcata la porta carraia con volta a botte, si accede alla vasta corte, sulla quale prospetta un casamento a tre piani. Al pianterreno si svolge una successione di archi, in cui si aprono i locali di servizio. Una scala esterna conduce al primo piano, dove sorgevano le celle dei monaci, precedute da una terrazza con pergolato. Presso le celle è visibile l’antico refettorio, lungo più di 50 metri, che fu utilizzato dal re Ferdinando IV e dalla duchessa di S. Teodoro, Teresa Caracciolo, come sala da ballo e da ricevimento. Il secondo piano è un’aggiunta posteriore, come si rileva dall’esame della tessitura muraria sul fronte esterno, nonché dalle fotografie degli anni ‘30. Alla porta carraia è addossata una modesta cappella con il campanile a vela. Di fronte al casamento si eleva una torre di epoca vicereale, con basamento a scarpata e bocche di lupo. Col venir meno delle esigenze difensive, alla fine del ‘700 la torre fu dotata di due portali d’accesso e di una copertura a falde con lucernario, non più esistente. Sul basamento è murata una lapide marmorea, molto rovinata, in cui si legge appena il nome di Ferdinando IV: è presumibile che la lapide riferisse della confisca della masseria ad opera del governo borbonico. I due piani superiori della torre sono crollati per i danni subiti nella seconda guerra mondiale. Infatti l’esercito alleato vi appiccò le fiamme per bruciare le carogne di animali ivi raccolte, onde scongiurare il pericolo di epidemia. Ha una pagina Facebook: https://www.facebook.com/pages/Torre-San-Severino/205113606252640


Fonti: http://www.torresanseverino.it/ (sito ufficiale dove si possono vedere diverse foto nella galleria), http://www.iststudiatell.org/rsc/art_8n/agro_giuglianese.htm

Foto: da http://www.torresanseverino.it e da giuseppe-peluso.blogspot.com

venerdì 18 aprile 2014

Pasqua 2014



I miei più sinceri auguri di una serena Pasqua a tutti coloro che seguono con piacere e interesse questo blog :)
Valentino

Il castello di venerdì 18 aprile






CASTELVETRO (MO) - Castello Rangone in frazione Levizzano Rangone

Le prime notizie certe di questo castello, eretto come baluardo difensivo contro gli Ungari, sono contenute in un documento datato 890 dal quale risulta che apparteneva alla chiesa di Modena. In questo periodo era, forse, semplicemente costituito da una rocchetta, cinta da un fossato. Altre notizie si hanno in un documento del 1038, riguardante la concessione del castello, da parte del vescovo di Modena, al marchese Bonifacio di Toscana, padre di Matilde di Canossa. Intorno al Mille la fortificazione era decisamente ampia. Alla fine del IX secolo, si presentava come un semplice insediamento fortificato di 2750 mq e, in caso di assedio, poteva ospitare tutta la popolazione della zona con animali e masserizie. La struttura consisteva in una cinta muraria, al centro della quale era posta la torre detta "Matildica", di forma quadrata, avente anche una doppia funzione, sia di avvistamento sia di mastio-comando, essendo residenza del signore, mentre nella zona sud è ubicata una cappella dedicata ai SS. Adalberto ed Antonino, ora sconsacrata. Dagli inizi del sec. Xll appartenne alla famiglia Levizzani, fino al 1337. Nel 1342 il castello passò alla famiglia Rangone, che lo tenne fino alla conquista napoleonica (fine del XVIII sec.). La successiva introduzione della polvere da sparo e l'uso di armi più potenti obbligò i feudatari a costruire nuovi mezzi di difesa, come le mura di fortificazione, che furono rinforzate o ricostruite. A partire dal sec. XII il complesso fortificato fu restaurato e ampliato; in particolare, accanto alla torre posta a protezione dell'ingresso al castello, venne eretta una parte del Palazzo feudale, destinato ad essere ingrandito attraverso vari interventi successivi, per prendere il posto del mastio (Torre Matildica) come dimora del Signore. è probabile risalga allo stesso periodo la costruzione di una galleria sotterranea, che unisce il corpo del Castello alla Torre. Intorno al XVI secolo, consolidatosi il potere dei Rangone e mutate le condizioni sociali e politiche, gli edifici subirono importanti trasformazioni: il complesso venne assumendo sempre più il carattere di nobile residenza e i proprietari si dedicarono alla sistemazione del Palazzo signorile. Risalgono infatti a questo periodo le cosidette "Stanze dei Vescovi", al pianterreno, il cui soffitto presenta affreschi degni di nota. Stemmi di famiglia ornano il soffitto a cassettoni, insieme con fregi e figure allegoriche; nella fascia alta delle pareti, all'interno di riquadri, sono affrescate scene di ambiente cavalleresco, bozzetti d'argomento amoroso, momenti di caccia, ma anche paesaggi rurali con piccoli villaggi, castelli, che richiamano i luoghi circostanti. Le dimensioni e la struttura del maniero rimasero invariate nel corso dei secoli seguenti. La torre Matildica attuale, posta ad oriente, non può essere quella originaria, se non molto trasformata. Si hanno notizie certe, tra l'altro, di restauri effettuati dalla famiglia Rangone nel XVIII secolo, all'epoca in cui fu rifatta la chiesa all'interno del castello. Di pianta quadrata, con struttura muraria mista in mattoni e pietra, è coronata da un apparato a sporgere, in mattoni, forse quattrocentesco o della seconda metà del secolo XIV, costituito da mensolette, che reggono merli di foggia ghibellina, fra loro uniti superiormente da archi, che portano il tetto a quattro falde. Gli interventi di restauro sono stati effettuati nell'Ottocento e nel Novecento, dopo che il Castello venne in possesso del Comune di Castelvetro e gli importanti lavori di recupero terminati nel 2007, hanno interessato oltre il 70% dell'intero fabbricato, sia all'esterno che negli interni, rendendolo perfettamente funzionale. Da porre in particolare evidenza il restauro delle stanze dei vescovi, con il recupero degli antichi soffitti lignei e delle decorazioni affrescate. I lavori, in gran parte finanziati con fondi del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, hanno consentito di recuperare un immobile di valenza storica culturale unico nel suo genere; e che oggi si presenta utilizzabile a tutti gli effetti. Quando nell’alto medioevo il solitario e trincerato castello di Levizzano proiettava la sua fosca ombra; l’umile gente lo squadrava da lontano, fu allora che si tramandò di bocca in bocca la leggenda delle fate.Si narrava di bellissime fate di bianco vestite che nelle notti di luna piena danzavano sugli spalti del castello, leggiadre e lievi come libellule. Qualche vano di finestra allora si illuminava.Quando l’alba tingeva l’oriente: fugando le ombre, le bellissime fate sparivano. Tutto ricadeva nel mistero e la gente era convinta che le fate fossero le padrone del castello; bellissime creature passate a miglior vita e che tornavano a rimirare i luoghi cari al loro cuore, ove avevano trascorso l’esistenza. Per approfondire la storia del castello consiglio il seguente link: http://www.icastelli.it/castle-1238686973-castello_di_levizzano_rangone-it.php


giovedì 17 aprile 2014

Il castello di giovedì 17 aprile






MANDELLO DEL LARIO (LC) - Torre del Barbarossa in frazione Maggiana

Il nucleo storico del paese si sviluppa intorno all'antica e alta torre medioevale oggi nota come Torre di Federico in quanto secondo la tradizione orale qui soggiornò - ospite della famiglia Mandelli - l'imperatore Federico I Hoestaufen (detto “Barbarossa”), nel tentativo di sottomettere i Comuni del Nord Italia all’autorità imperiale e di affermare la propria supremazia sul Papato. La forma della torre è quadrata, l'altezza è di 40 braccia e la larghezza di dieci. Le mura hanno da ogni parte finestre ogivali che si alternano con delle feritoie. Si accede per un ampio portone medioevale, che immette in un cortiletto d'ingresso dal quale, per una comoda scala, si entra al primo piano della torre. Quivi, murata nel camino, si osserva una lapide che porta incisa una dicitura su Federico Barbarossa ora resa illeggibile dagli anni, dalla fuliggine e ancora dagli uomini, poiché la pietra ora è scomparsa forse per tre quarti nella base del camino e la poca emergente non lascia scoprire altro che qualche consonante sconnessa. Dal primo piano si sale ai piani superiori fino all'ultimo, un tempo tutto ornato di affreschi che ora si sono andati affievolendo fin quasi a scomparire: solo dei trofei d'armi dipinti negli angoli resistono al tempo, quasi a testimoniare ai visitatori odierni il soggiorno che vi fece l'imperatore Federico I. Verso il 1800, la torre passò in proprietà al signor Francesco Alippi, il quale, orgoglioso di possedere un monumento tanto storico, la restaurò, ornando la sommità di un comodo terrazzo con quattro pilastrini granitici agli angoli congiunti fra loro da riquadri in ferro lavorato, sormontato in un angolo dal parafulmine, mettendo così l'interno al riparo dall'azione corruttrice delle intemperie. Il 5 maggio 1828 un muratore che stava smurando il camino al primo piano, rinvenne addossata al muro una lapide di granito tutta annerita dal fumo; pulita e lavata convenientemente, vi si lessero le parole: FRIDERIC - IMPERAT - GERMAN HIC - TUTUS - QUIEVIT - ANNO 1158 (Federico, imperatore di Germania, qui sicuro riposò - anno 1158). La lapide è però andata perduta. La scoperta accrebbe a dismisura la considerazione di Alippi per la torre di cui, orgoglioso, si sentiva proprietario. Dal 19 marzo 1910, l'edificio è notificato al signor Tomaso Comini fu Ignazio, i familiari del quale, su richiesta, con la già sperimentata cortesia, sono lieti di fare da guida nella visita alla torre fino al terrazzo, dal quale l'occhio si posa compiacente sui colli circostanti, sui pendii, sulla sottostante Mandello e sul lago fino a Bellagio. La torre attualmente è è sede del Museo di Arte Contadina. Il museo è allestito dall'associazione locale "Gruppo Amici di MAGgiana" (GAMAG) ed è visitabile solo su prenotazione o nelle giornate della festa in costume medievale de "La Torre in festa", che si svolge tutti gli anni nel mese di giugno. Il Gamag, nel dicembre 2008, ha ottenuto per un ulteriore triennio la gestione della Torre.

Fonti: http://it.wikipedia.org, http://prolocolario.it/index.php/Articoli/monumenti-luoghi,
http://www.archiviomandello.it/Public/Pdf/1807346c-76e6-4357-b067-300f1d26b652.pdf (testi a cura dell’Archivio Comunale Memoria Locale di Mandello del Lario)

Foto: una cartolina postale, mentre la seconda è di Marco Jokrah su http://www.panoramio.com