ZUMAGLIA (BI) - Castello Fieschi
Si trova sulla cima del Brich di Zumaglia (669 m s.l.m.), un poggio dal
quale è possibile ammirare gran parte della pianura piemontese, sino a Novara,
Vercelli e - con un po’ di fortuna - il Monviso. L'edificio risale al 1291 e fu
edificato su una precedente costruzione. La fortezza fu potenziata intorno al
1329 su disposizione del vescovo di Vercelli Lombardo della Torre, signore
della zona. Il castello, appartenuto a lungo ai Fieschi, venne poi smantellato
e distrutto nel 1556 a causa di un bombardamento delle truppe di Enrico II di
Francia e ricostruito solo quattro secoli dopo, nel 1937, per opera del conte
Vittorio Buratti della Malpenga. Della costruzione originaria restano oggi solo
alcune tracce, fra cui la cisterna e la cella nella quale fu rinchiuso per
vent’anni il capitano Pecchio (di cui parleremo più avanti). Nel 1880, poi, il
marchese Cantono Ceva fece innalzare una torre sui ruderi, dando così vita ad
una costruzione che consentì di distinguere a distanza il Brich dal vicino
Brich Preve. Attorno all'edificio fu allestito un parco e sono tuttora presenti
alberi di specie rare o esotiche anche di notevoli dimensioni. E' dunque una zona
di sicuro interesse botanico, per la presenza di specie forestali autoctone che
si mescolano con specie ornamentali introdotte allo scopo di trasformare il
preesistente bosco in un parco “romantico”. Il castello, facilmante
raggiungibile a piedi per un viottolo acciottolato, viene utilizzato per
iniziative culturali tra cui una rassegna estiva di teatro itinerante della
compagnia A.R.S. Teatrando.
Le leggende
al maniero, che vide tra i suoi abitanti il crudele vescovo Giovanni Fieschi
(1348-1384) e l'ancor più crudele Filiberto Ferrero Fieschi (XVI secolo), sono
davvero tante. Alla morte di Filiberto Ferrero Fieschi un diavolo, nascosto da
giorni accanto al letto in attesa che spirasse, ne fece scomparire il corpo e
l'anima in una voragine di fuoco che si era aperta all'improvviso. Si racconta
che, nelle notti di plenilunio, al viandante che dalla strada sottostante
guarda in alto, appare una capra dalle lunghe corna, che saltabecca
paurosamente fra i ruderi e i rovi: che sia l'anima senza pace di uno dei due
crudeli abitanti del castello? Si narra anche di una diabolica lavandaia che,
durante i temporali, apparirebbe per stendere il suo interminabile bucato,
quasi a voler significare come la pioggia debba lavare il sangue fatto spargere
dai crudeli abitanti del castello. Non mancano, ovviamente, le macabre danze
notturne delle "masche", con i loro riti terribili e crudeli. Unica
nota "allegra", gli gnomi che durante la notte si divertono a
tagliare le chiome alle ragazze di Zumaglia. Si racconta che nel 1537
Filiberto Ferrero Fieschi fece rapire e rinchiudere in una cella dalla porta
murata il gentiluomo Giovanni Pecchio, catturato mentre si recava a cavallo da
Vercelli alla sua tenuta di Asigliano. Si trattava di una vendetta del Ferrero
contro il Pecchio, che aveva fatto eseguire, in qualità di pubblico ufficiale,
una sentenza di carattere finanziario. Venne sparsa la voce che il gentiluomo
fosse stato ucciso dai ladri dopo l'aggressione e la conseguente rapina, e il
marchese non esitò ad accusare come colpevoli due poveracci, strappando loro
una confessione con la tortura, e facendoli impiccare nonostante fossero
innocenti. Giovanni Pecchio, dopo quasi 18 anni di prigionia, venne liberato
nel 1554 dai Francesi, giunti a Zumaglia per cacciare il Ferrero. Le milizie visitarono
il castello da cima a fondo, quando ad un tratto udirono un lamento provenire
da un sotterraneo. Abbattuta una porta murata, trovarono il Pecchio, ridotto
ormai ad una larva, seminudo e magrissimo. I Francesi riuscirono a fatica,
dalle poche parole sconnesse del prigioniero, a ricostruire la sua storia. Purtroppo
Giovanni Pecchio non sopravvisse a lungo a tante sofferenze. La leggenda dice
che i suoi familiari non lo vollero più riconoscere, anche perché la moglie si
era nel frattempo risposata. In realtà la moglie era morta durante la sua
prigionia e il Pecchio dovette lottare per poter riavere il proprio patrimonio,
che nel frattempo i figli avevano venduto o sperperato.
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